domenica 27 gennaio 2008

Memorabilia. 9 SETTIMANE E 1/2


L' "anteprima mondiale" sbandierata non è una bufala: uno dei più noti film erotici degli anni 80 risulta effettivamente uscito da noi con una settimana d'anticipo rispetto al paese d'origine. Sono più discutibili l'aggettivo "capolavoro" e la grafia italianizzata di Brian "Ferri". Buffa la presunta pericolosità di una pellicola non proprio scandalosa ma che in ogni caso ha segnato l'immaginario, ha avuto dalla sua una canzone (You can leave your hat on) che si ricorda ancora e ha dato una botta alla notorietà dei suoi due protagonisti. Mickey Rourke, dopo aver partecipato ad un altro titolo similare, Orchidea selvaggia, interpreterà un immensamente meno fortunato seguito del film di Lyne. Al posto della Basinger, Angie Everhart.                          Alessio Vacchi

Incompresi. Comici allo sbaraglio: IL BI E IL BA


Su dvd Millennium Storm.

«Il male degli italiani è l’ignorantità» (cit. dal film). Non tutti sapranno che Nino Frassica, noto volto televisivo (Don Matteo, gli ultimi spot Wind), ha girato un film da protagonista, prima di prendere parte ad altre pellicole più corali (Sognando la California, Anni 90 parte II), diretto addirittura da Maurizio Nichetti, il surreale autore di Volere volare, per citare il titolo più noto. Nonostante fosse il periodo dell’esordio del comico nella trasmissione di successo Quelli della notte con Renzo Arbore, Il bi e il ba, uscito nel marzo 1986, ottenne un riscontro decisamente tiepido (secondo M. Giusti è rimasto vittima del concomitante successo di 9 settimane e ½) ed anche in televisione si è visto di rado. Eppure, meritava un poco più di considerazione, visto che non ha nulla da invidiare a modesti film comici che hanno sfondato. Se l’inizio è un po’ faticoso e Frassica sembra non poter sostenere del tutto la fragile impalcatura del film, se ci si sintonizza sulla sua comicità dopo un po’ il film diverte.
Guardando il protagonista, è difficile non pensare all’Abatantuono-terrunciello di quegli anni. La provenienza meridionale del personaggio, la zazzera ed i baffi, il modo di esprimersi che è un continuo di storpiature. In più ci sono una tendenza al surreale e un modo di essere e di fare stralunati, come se il personaggio vivesse in un mondo mentale suo. Ingenuo e petulante, è però anche capace di cavarsela ed aiutare alla grande, come nella esilarante scena in cui riesce a svendere tutto il negozio del parente. Il soggetto lo vede partire dal suo paese siciliano, nel quale vive con le sorelle e frequentando il suo gruppo di amici “sfigati” (tra i quali Leo Gullotta), alla volta di una grande città, Roma. Un’emigrazione dal sud da parte di un personaggio per così dire eccentrico: Totò, Peppino e la malafemmina sembra evocato puntualmente in alcuni dei primi incontri dopo lo “sbarco”, la lettera dettata all’impiegato degli oggetti smarriti ed il tentativo di chiedere informazioni ad una vigilessa. Inoltre, l’atteggiamento del personaggio in scene come quella al commissariato, ingiustificatamente sicuro di sé e saputello, ricorda proprio lo stile di certo Totò.
La molla che fa scattare il viaggio è volutamente ridicola -lui sembra tornare a ricordarsene solo verso la fine-, la traccia narrativa è labile, così come l’appendice “thriller” (due malviventi che lo cercano a causa di uno scambio di pacchetti) è ininfluente ed il fanatismo del protagonista per l’annunciatrice Rai Maria Giovanna Elmi (che compare in un cameo) è alla fine risolto in una simpatica gag che contraddice le attese. Nichetti non è certo al suo meglio, tuttavia sta al servizio dell’attore e nel contempo gli crea attorno un clima bizzarro il giusto. Caratteristi da notare nel cast: il baffuto “tartaglione” Nino Terzo, quasi a fine carriera ed il coriaceo Nello Pazzafini -noto anche come stuntman- nella parte di uno dei due malviventi. Per il significato del titolo, vedere il film.                          Alessio Vacchi


Io c'ero. Festival ed eventi vari. JULIETTE & THE LICKS live -Rock the Spot, Bardonecchia (TO), 19.1.2008-


Juliette & the Licks attaccano più o meno puntualmente, poco dopo le 22, l’ora prevista. L’attesa non è stata breve ma il tempo è passato, sebbene l’unico dei gruppi spalla che si sia distinto per bravura ed energia siano stati i Dufresne, molto apprezzati nel tenerci caldi e su di giri con il loro potente e martellante emo-violence.
Riusciamo, nell’intervallo che passa tra i Vanilla Sky (acclamati dai teenagers presenti; la cover di Umbrella è in effetti divertente, le altre canzoni non si può dire che abbiano lasciato il segno nella mia mente) e l’entrata in scena di lei, a conquistarci un posto in prima fila, contro le transenne: il palco è a meno di cinque metri e personalmente quello che potrei desiderare di più è solo riuscire ad imbucarmi nel camerino di lei, ma non si può avere tutto. Da quella ridotta distanza comunque sarà perfettamente in grado di leggere la scritta Juliette I love you Kiss me sulla mia manona di gomma bianca (gadget targato Fiat distribuito nella serata, n.d.r.), e tanto basta.
La prima cosa che mi passa per la mente quando Juliette salta fuori sul palco è che pensavo fosse più alta (chissà perché, poi); invece sembra quasi mingherlina, è magra e nervosa, ma tesa e piena di energia come le corde di una chitarra elettrica. Pantaloni di vernice nera muniti di ginocchiere, giubbotto rosso fuoco, capelli scarmigliati e una piuma gialla come ornamento, stile squaw indiana, è una vera rocker, poche storie. Attacca di brutto con Smash & Grab, canzone su un inseguimento con la polizia, e che di un inseguimento ha tutta la carica grezza e scomposta. La spalleggiano degnamente i Licks (due chitarre, basso, batteria), fornendole la musica di cui ha bisogno una come lei: veloce, rumorosa, dai ritmi spesso semplici e spontanei, ma che per questo si fa seguire, trascina e infonde energia. Non è certo il metal o l’hard rock classico, ma c’è ugualmente da scuotere la testa a ritmo e tenere alte le mani con le dita a corna nell’universale gesto d’amore dei rockers: Juliette se lo merita ampiamente. Si dimena e si contorce sul palco, la sua voce è quella di una ragazzina cattiva: roca e graffiante, ma con un che di dolce e quasi infantile, in fondo; mentre canta, sputa fuori i vapori di condensa nell’aria gelida. Prosegue a ritmo serrato martellandoci con le canzoni del recente Four on the floor: Sticky Honey, Hot kiss, Purgatory Blues; poi da You’re speaking my language: malinconica e commovente, I never got to tell you what I wanted to to si sente dentro e non si può fare a meno di cantarla, poi la title track dell’album, semplice e diretta. Verso metà concerto, un giro del più classico hard rock ci riporta nientemeno che al 1976 con la cover di Dirty deeds done dirt cheap degli AC/DC, rifatta abbastanza fedelmente, non sfigurerebbe accanto all’originale. Juliette ci guarda con i suoi occhi allo stesso tempo freddi e infuocati, che mandano lampi, per la gioia di noi della prima fila, mentre le mando baci a tutto spiano, e fa cantare il pubblico in coro per introdurre So Amazing. Poi i Licks mollano gli strumenti e si mettono tutti insieme a suonare la batteria, tirando fuori un ritmo con un che di tribale. Si vede che si divertono anche loro come noi: fondamentale, questo, per un vero rocker.
Poco dopo le 23 il concerto finisce (tempi tecnici per tornare alla stazione con le navette, perchè il treno non ci molli al freddo a Bardonecchia), Juliette e i Licks ci salutano inchinandosi come a teatro. Unico rimpianto (ma del tutto personale): che siano mancate canzoni lente e commoventi come Long road out of here o This I know, che avrebbero visto una buona alzata di accendini e avrebbero dato qualche minuto di respiro a noi schiacciati in prima fila. Ma per il resto, è davvero valsa la pena di spostarsi fin lassù e di passare un po’ di ore al freddo per farsi riscaldare da una Juliette
so amazing, yeah!                                                        Francesco De Renzis

domenica 20 gennaio 2008

INTRODUZIONE.

Nasce oggi Ultimo spettacolo, annunciato da una massiccia campagna pubblicitaria (un misero banner sul forum di Nocturno cinema). Era il caso di creare un altro sitarello coi tanti che sono già on line? Come cantava Battisti, “lo scopriremo solo vivendo”... Il titolo del blog è quello di un film di Peter Bogdanovich, ma l’ispirazione in realtà è più prosaica e viene da un verso della nota canzone di Ligabue A che ora è la fine del mondo?. Mi attirava perché dà l’idea di qualcosa di un po’ defilato, ma sempre presente ed ha inoltre un che di decadente, che fa un pò noir, o dark se si preferisce.
Il blog sarà curato da me medesimo, ospiterà firme di grande prestigio (massì) e sarà articolato in sezioni, si spera, curiose, alcune inaugurate oggi: The freak show, sul cinema horror più in ombra, Memorabilia con scansioni di ritagli pubblicitari dai quotidiani, Tra pagina e schermo sul rapporto tra racconti/romanzi e relative trasposizioni filmiche, Incompresi sul cinema sottovalutato o passato sotto silenzio, The book runner in cui si parla di libri -e la prima recensione vuole dire di uno sguardo rivolto anche alla realtà circostante-... Il tutto vorrebbe comporre uno spazio principalmente di cinema, rivolto agli appassionati ma non solo, riflessivo più che legato strettamente al nuovo ed aperto alle altre forme di espressione: letteratura, arte, musica... Se apprezzate, tenete d'occhio gli aggiornamenti settimanali e passate il link: non si sa mai che così il blog cresca. Per il disegnino ringrazio Francesca Carnevale.                                                                                                                Alessio Vacchi

The freak show. IL CACCIATORE DI TESTE


No, questo film non è Le Couperet di Costa-Gavras e non è nemmeno il The Borrower di John “Pioggia di Sangue” McNaughton, ma uno delle migliaia di b-movies prodotti nel mare magnum dell’home video anni ’80, ai tempi d’oro del VHS; un fenomeno che si sta ripetendo in questi anni con il DVD, anche se con un sapore completamente diverso e, diciamolo, meno intrigante (sarà il fascino del vintage o il fatto che quelli odierni sono sottoprodotti di sottoprodotti).
Il Cacciatore di Teste (A.D. 1988 – visto censura italiano n. 85613 del 23/4/90) è il secondo film di Frank Schaeffer, figlio di un evangelista americano (Francis Schaeffer) e con un passato nei documentari che con il cinema di fiction ha avuto una sveltina di quattro pellicole low-budget prima di darsi alla parola stampata come saggista, romanziere e giornalista.
Girato in Sud-Africa per questioni finanziarie ma ambientato a Miami, Headhunter racconta del detective di polizia Pete Giuliani (Wayne Crawford, habituè di molte pellicole ad alto tasso di economia made in USA e produttore dell’inspiegabilmente cult Night of the Comet) che, matrimonio in crisi, indaga assieme alla collega Katherine (Kay Lenz, che vanta un lungo curriculum televisivo) su alcuni violenti delitti tra la locale comunità nigeriana. Delitti perpetrati, come scopriranno, da un antico demone africano che decapita i miscredenti e fa razzia di anime per consolidare il proprio potere.
Ufficialmente scritta da tal Len Spinell (ma in realtà opera di un altrettanto oscuro Andrew Lane e dello stesso Crawford), la storia si articola tra aborti di denuncia sociale (i battibecchi con il razzista capo di polizia – robetta buttata lì tanto per fare ambiente), lungaggini da telenovela e battutine che fanno incarnire le unghie, ma ci sono un paio di trovate gustose, come la moglie di Giuliani (Jane Chadwick – la Lydia di V-Visitors) che si è scoperta lesbica e sta con una che più stronza non si può, e tuttosommato regge per quel che deve.
La realizzazione è accattivante: Schaeffer non è un Philippe Mora qualunque e cerca lo stile, a cominciare dalla fotografia (specie nelle scene notturne e negli interni), sforzandosi di spremere quanto più possibile dai pochi soldi a disposizione: la sequenza, girata a mano, in cui Kay Lenz viene inseguita dai seguaci del demone in un vagone ferroviario è notevole ed efficace. Ciononostante, la regia non fa miracoli e la ristrettezza di mezzi si fa sentire, specie nel finale, dove lo scontro tra i poliziotti ed il Cacciatore di Teste a colpi di motosega delude le aspettative, nonostante le si provino tutte (assurde sovrimpressioni comprese) per renderlo spettacolare. A dispetto del titolo, gli omicidi sono decisamente aridi: di teste ne volano parecchie, ma, invece del sangue, partono scintille. Benché l’idea non sia male (la sulfurea arma del demone taglia e cauterizza), la realizzazione da capodanno rischia di strappare qualche sorriso. Lo stesso vale per l’uso insistito di fumogeni, come da tradizione del decennio più kitsch della Storia, e della scena in cui il demone nuota verso una vittima con la punta del suo spadone che affiora dall’acqua tipo pinna di squalo (analoga ad uno degli incubi mortali del contemporaneo Nightmare 4: Il Non Risveglio). Un gioiellino, insomma.
I cultori del lato oscuro del cinema godranno nel riconoscere spezzoni da The Hideous Sun Demon di Robert Clarke che passano in tv mentre Giuliani e Kate combattono il mostro.
Se già morite dalla voglia di vederlo, vi informo che purtroppo la videocassetta italiana Columbia Pictures Home Video risulta fuori catalogo (salvo fortuiti ritrovamenti, come nel caso di chi scrive), ma non disperate perché esiste un’edizione DVD (fullscreen come la VHS) a cura della britannica Ilc Entertainment ed ampiamente disponibile (a prezzi modici) nel Regno Unito.                           Emiliano Ranzani

Memorabilia. MIRANDA e LA SIGNORA DELLA NOTTE



Miranda, 1985. Tinto Brass lancia Serena Grandi. Una citazione di uno scrittore di peso ed un simpatico slogan che lascia presagire chissà che accompagnano il ritaglio che propongo. Un successivo flano di Miranda recita: "A grandissima richiesta Serena Grandi offre in visione le sue grazie solo per pochi giorni". In realtà, il pubblico dovrà aspettare pochi mesi per rivederla in altre pellicole, come La signora della notte: notare la frase sopra riportata, che la bolla già come massima icona erotica del decennio.                     Alessio Vacchi

The book runner. LA SCOMPARSA DEI FATTI


Ed. Il Saggiatore, 2006.

Marco Travaglio è, oltre che giornalista, scrittore prolifico. La sua bibliografia mette in luce un ritmo che ha toccato i quattro libri l’anno, scritti talora in collaborazione con altri; in ogni caso, basta un giro in libreria per trovare sempre, nella sezione di politica/attualità, qualche sua opera. Ma ha qualcosa da dire, o sforna libri a macchinetta, tanto per…? Leggendo opere come La scomparsa dei fatti o il precedente Regime (su misfatti ed epurazioni della nostra tv nel secondo governo Berlusconi), sembra valida la prima ipotesi. E quello che viene esposto in questo libro è micidiale, per chiunque abbia un cervello sufficientemente slegato da balle partitiche e televisive. Che ruolo hanno, nell’Italia di oggi, i fatti? Sono considerati alla stregua di opinioni. Si manipolano e vanno persi, sostituiti da pareri di comodo, interpretazioni, o menzogne belle e buone, diffuse da chi ha tutto l’interesse affinchè di certe cose non si parli, o meglio: se ne parli in un dato modo. Tra notizie date senza aver dietro fonti serie ed altre che vanno a traino di falsità, senza che qualcuno si preoccupi di approfondire e magari smentire, il quadro è completo. Ed è deprimente: perché testimonia di un forte legame tra politica ed informazione e persino della presa in giro come fondamento del lavoro di certuni. Cosa che sembra non avere eguali in altri paesi che non siano dittature. Così, un’informazione vera, che dovrebbe essere diritto legittimo, si fa strada a fatica nei media in mezzo ad una informazione incatenata, mentre si creano dibattiti-fuffa che distolgono dai noccioli delle questioni. Non che questo sia una totale sorpresa. Ma il libro ha la legittima presunzione di riportare dell’ordine in questo caos informativo. La rievocazione puntuale di cosa è successo, di cosa è stato messo agli atti, di come si sono concluse delle inchieste, fa piazza pulita dei revisionismi di comodo del potere politico -per esempio, su Tangentopoli- ed è messa a confronto con l’infilata di balle mediatiche a riguardo. Per non parlare della messa in luce della caratura morale di personaggi del piccolo (davvero) schermo, come Bruno Vespa. Per non parlare dei confronti con l’estero: la menzogna di Aznar sull’attentato, che lo portò a dimettersi, i casi di conflitti d’interessi risolti con fermezza. L’insieme fa mettere le mani nei capelli e chiedersi perché non possiamo essere un paese più normale.
Cosa si può rimproverare all’autore? Tuttalpiù qualche commento sferzante, qualche epiteto, che sono i suoi modi di esprimere una sconsolata ironia. Che però, francamente, è legittima. Si potrebbe leggere La scomparsa dei fatti come un invito alla maggior parte dei giornalisti ad alzare la schiena e fare davvero il loro mestiere -invece che farsi correggere in gruppo da un collega più “cane sciolto”-. Testimonianza di una sconfitta deliberata dell’informazione italiana, il libro, come minimo, aiuta a ricordare, cosa utile per farsi prendere meno in giro: leggetelo, consultatelo e parlatene. Diffidando di chi lo bollerà spregiativamente con qualche aggettivo che termini in –ista.
                                                                     Alessio Vacchi

Tra pagina e schermo. IO SONO LEGGENDA


riferimenti: Io sono leggenda (2007) di Francis Lawrence. Con Will Smith. Uscito in Italia l'11.1.2008.
L'ultimo uomo della Terra (1963) di Ubaldo Ragona. Con Vincent Price. Su dvd Ripley.
1975: occhi bianchi sul pianeta Terra (tit.or.: The omega man, 1971) di Boris Sagal. Con Charlton Heston. Su dvd Warner.


Io sono leggenda di Richard Matheson è uno dei moderni romanzi dell’orrore che hanno maggiormente contribuito all’evoluzione del genere. Almeno tre trasposizioni cinematografiche, senza contare la ben nota influenza che il libro ebbe su George Romero quando girò il celebre La notte dei morti viventi; come dire che il moderno cinema dei morti viventi deve la sua genesi al testo mathesoniano. Niente di strano quindi che la terza riduzione per il grande schermo (c'è anche un I am Omega uscito in home video, n.d.r.) risalga a tempi recenti, con la moda imperante dei remakes e ricicloni vari che a Hollywood sembra dettar legge. Quel che appare meno chiaro è perché regista e sceneggiatori si siano sforzati tanto di proclamare a gran voce l’ispirazione da Matheson, visto che del romanzo che dà il titolo al film nel copione non è rimasto quasi nulla.
Se L’ultimo uomo della Terra di Ragona si manteneva abbastanza fedele al testo ispiratore ( il finale era stato modificato, mantenendo però inalterato il messaggio letterario: in un mondo dove il vampirismo è dioventato la norma, il vero mostro è chi suo malgrado ha conservato la propria identità umana) e The Omega Man rileggeva la vicenda in chiave postatomica, conservando però il legame conflittuale fra il protagonista e il leader dei contagiati (suo vecchio amico prima che il virus lo trasformasse), questa nuova versione di Lawrence è figlia della nuova tendenza dgli zombie-movies del nuovo millennio: molta azione, uso smodato della computer graphica, effettacci (ma in questo caso di sangue ne scorre poco), suspense (ben dosata, ad onor del vero).
L’incipit mantiene una certa somiglianza col romanzo ( l’epidemia non ha origini ignote come nel libro di Matheson; si tratta del solito esperimento scientifico sfuggito di mano ai suoi creatori), ma la narrazione prende presto un’altra piega. Svanisce il distacco clinico del medico protagonista, che nel testo si aggrappa ai dati scientifici per trovare una cura al morbo e combattere la follia che a causa della prolungata solitudine rischia di mandare la sua mente in frantumi; i contagiati non sono vampiri da eliminare col classico paletto nel cuore (il romanzo forniva una spiegazione scientifica sull’esistenza di Dracula e dei suoi sanguinari compagni di merende) ma famelici e repellenti mostri deformi e antropofagi, guidati da un leader ferino assolutamente privato dell’intelletto (altra distinzione dal romanzo; lì i succhiasangue conservavano la capacità di intendere e di volere). Anche l’incontro con un’altra superstite (che nel romanzo si rivelava una contagiata in incognito, mandata dai vampiri a spiare il dottore) dà una svolta completamente diversa al racconto, che prende una piega messianica trasformando l’atletico Will Smith in martire per la salvezza dell’umanità. Perfino il titolo del film assume un significato diverso rispetto a quello conferitogli sulla pagina; se di fonti letterarie e cinematografiche bisogna parlare, è probabile che gli autori della sceneggiatura avessero in mente anche un piccolo classico della sf in celluloide come L’ultima odissea, di cui Io sono leggenda riprende il finale in maniera pressocchè identica.                        Corrado Artale


Incompresi. IL BRANCO


Italia 1994. Di Marco Risi. Su dvd Cecchi Gori.

Il branco è tratto da una storia vera, purtroppo; Marco Risi ci racconta una vergognosa pagina della cronaca della provincia romana. Nei titoli di testa si possono ‘apprezzare’ le voci registrate nella segreteria telefonica di Radio Radicale quando nel 1994 restò chiusa per una settimana. Notevole scelta stilistica e formale, che ben caratterizza il background culturale che fa da sfondo alla vicenda. Luca Zingaretti e il caratterista romano Natale Tulli interpretano i due adulti che plagiano e inducono allo stupro un gruppo di giovani nullafacenti interpretati da Ricky Memphis, Giorgio Tirabassi, Salvatore Spada, Giampiero Lisarelli e Roberto Caprari. Il piano è semplice : rapire due autostoppiste tedesche, tenerle rinchiuse in una catapecchia e sfogare i propri istinti sessuali sui loro corpi indifesi. La baracca, luogo delle violenze, è oltre la provincia, oltre il bosco, oltre tutto. Il punto di vista è unicamente quello degli stupratori, realistico e glaciale. Le scelte registiche sono ciniche e crudeli, ma allo stesso tempo necessarie (non vediamo mai ciò che accade all’interno della baracca, possiamo solo sentire le urla di disperazioni delle due ragazze) per portare lo spettatore all’interno della vicenda, rendendolo impotente e passivo come un lettore di fronte alla lettura della notizia su un quotidiano. Ciò che sconvolge maggiormente non sono tanto le ripetute violenze carnali, quanto l’ignoranza e la superficialità del branco, spiazzanti, che invece di provare pietà e mostrare anche solo un briciolo di compassione preferisce giustificare le proprie nefandezze : “Del resto se la sono cercata, erano soltanto due tedesche che facevano l’autostop”. Lo sguardo di Risi è impietoso e impassibile. Non c’è tempo per il rimorso, tutto avviene velocemente, soltanto in una notte. Non c’è tempo per pensare, non c’è tempo per redimersi. E’ il ritratto di una nottata feroce, dove il lupo sbrana l’agnello, dove il branco si impossessa del singolo.
Risi è ispirato, si avvertono una conoscenza e una consapevolezza del tempo e dello spazio difficilmente riscontrabili in altri suoi lavori. Svolge un lavoro encomiabile, focalizzandosi sulla ricerca del realismo: uso del dialetto, dialoghi semplici e diretti, dinamiche comportamentali primitive, non fanno altro che accentuare questo aspetto, qualità assoluta dell’intera opera. La sua regia è supportata dall’ottima fotografia giallognola, marcia, carica di contrasti e colori sbiaditi. A fine visione si esce distrutti e sconfitti come tutti i protagonisti della pellicola, catalogabile come una sorta di rape&revenge tronco, senza soddisfazione. In definitiva un film da vedere e da far vedere, per capire cosa non c’è da capire. Apparentemente superficiale, ma assolutamente indispensabile, per raccontare un’umanità al limite. Alberto Viavattene