domenica 24 febbraio 2008

Memorabilia. SCEMO DI GUERRA


Questa settimana dedico parte dell'aggiornamento a Beppe Grillo. Mancano due mesi al suo nuovo V-day, ma forse qualche navigatore non curiosissimo di cinema si stupirà nel sapere che il comico genovese ha girato, negli anni Ottanta -gli anni del suo successo televisivo, ben prima che venisse ostracizzato dalla nostro piccolissimo schermo-, tre film, che ogni tanto passano pure in tv. Scemo di guerra è il secondo, una commedia di ambientazione bellica concepita da Risi insieme alla prolifica coppia Age e Scarpelli. Inutile dire che l' "insuperabile divertimento" promesso va un pò ridimensionato.                                                Alessio Vacchi

Incompresi. Comici allo sbaraglio: TOPO GALILEO


Italia 1988. Di Francesco Laudadio.

Topo Galileo è il terzo, ed ultimo, tentativo al cinema di Beppe Grillo. Dopo Cercasi Gesù e Scemo di guerra, film non molto riusciti sebbene diretti da nomi forti quali Luigi Comencini e Dino Risi, il comico ci riprova con una pellicola questa volta scritta da lui, insieme ad un autore noto come Stefano Benni. Le dichiarazioni d’epoca di Grillo che si leggono sul Dizionario dei film italiani stracult di Giusti dicono di una fiducia molto ingenua da parte sua nei confronti dell’uscita in sala di questa “creatura”. Ma già solo leggendo il soggetto, e poi vedendo il film, non si capisce come potesse pensare che questo lavoro dovesse funzionare più degli altri. Infatti il film totalizza un incasso modesto ed il comico abbandonerà il grande schermo; anche Benni, dopo aver scritto e co-diretto poco dopo Musica per vecchi animali, altro flop, lascerà stare il cinema. Esperto derattizzatore dai metodi originali, Galileo viene chiamato da una centrale nucleare, i cui membri si chiamano con numeri, per acchiappare un topo sfuggito al controllo. Ma cade nel plutonio e viene quindi trattato e studiato come una cavia da un ottuso professore (Paolo Bonacelli, lo zio di Johnny Stecchino). Fin quando non fugge con l’aiuto di una bella professoressa (Jerry Hall, bionda modella che è stata poi moglie di Mick Jagger) che gli vuole bene (e lo bacia in una scena un po’ ridicola, col sax in sottofondo). Galileo cerca di far conoscere la sua situazione, mentre i capoccia della centrale, appoggiati dal ministro della difesa, lo braccano. Si avverte la mano di Benni, in una vicenda bizzarra, che diventa di fantapolitica ed ironizza sul potere, attraverso personaggi sopra le righe (almeno, quelli maschili della centrale). Qualcosina va a segno a riguardo, per esempio il party vip in onore dei contaminati nel quale essi irrompono a proporre dolci scaduti (“Signora, gradisce un boero del 1940?” “Vai via, negro!”). L’insieme poi ricorda un po’ il nostro cinema postatomico, in voga pochi anni prima, nel girare attorno a militari-nucleare-contaminazione. Se, quindi, si apprezzano Benni e suoi romanzi come Spiriti il film può risultare simpatico ed un po’ familiare. Altrimenti può risultare indigesto o perlomeno debole, una storia fumettistica sì diversa dal solito ma poco convincente e divertente, nonostante il protagonista si impegni. Tirando le fila del tris di pellicole interpretate da Grillo, risulta evidente che siano film “pensati”, non tentativi frettolosi di buttarlo/buttarsi sullo schermo contando sulla sua popolarità. Ma la sua maschera sparuta, decisamente meno aggressiva rispetto alle apparizioni tv ed all’attuale ruolo di blogger impegnato ed arrabbiato, ha poca presa al cinema. Nel caso specifico, vederlo parlare con i topi ed impegnato in scene “d’azione” può facilmente portare a pensare: “…ma cosa sto guardando?” (più simpatico invece quando, come un eroe sfigato, va a salvare la bella navigando nelle fogne, imbracciando una scopa). Da segnalare nel cast i riconoscibilissimi Claudio Bisio -inserviente ai monitor della centrale- e l’oggi conduttore tv Michele Mirabella -un giornalista-.                          Alessio Vacchi

The freak show. MANOS: THE HANDS OF FATE


Mai scommettere con un venditore di fertilizzanti, specialmente se questi si chiama Harold P. Warren e viene da El Paso. Tutto ha inizio nel 1966, quando il massiccio texano incontra lo sceneggiatore e produttore Stirling Silliphant (La calda notte dell’Ispettore Tibbs, Il Villaggio Dei Dannati), in quel momento impegnato a scovare locations nella sua città natale.
Warren, in uno slancio di arroganza, scommette con il cineasta che sarebbe in grado di produrre un film dell’orrore con pochi soldi e di ricavarci un’enorme profitto. Detto questo, subito si mette all’opera e racimola all’incirca diciannovemila dollari ed una cinepresa a molla per produrre il suo horror, reclutando alcuni attori locali. Il risultato è Manos: The Hands Of Fate, universalmente riconosciuto come una delle pellicole più brutte mai realizzate, al punto di esercitare su alcuni uno strano, morboso fascino (Quentin Tarantino si dice orgoglioso di possederne una rara copia 35mm: contento lui…). Considerando la professione dello sceneggiatore, regista, produttore e protagonista maschile (ebbene sì), non stupisce che il film sia, senza mezzi termini, una stronzata (quale fertilizzante migliore del letame? D’altronde, lo cantava anche De Andrè).
L’incerta trama inzia seguendo una famigliola americana (papà, mamma, figlia e cagnolino) in viaggio sulla loro macchina per il deserto – e già si ride perché questa lunga sequenza è completamente lasciata a sé stessa. I protagonisti arrivano ad un vecchio ranch, dove ad accoglierli trovano solo uno strambo individuo che, esprimendosi con una parlata intossicata, si presenta come Torgo, il guardiano del posto “finché il Maestro è via”. Nonostante gli avvertimenti del goffo custode, il padre riesce a convincerlo ad ospitare lui e la sua famiglia nella fattoria per la notte (“Benissimo”, dice lo strano personaggio, “Il Maestro sarà molto contrariato!”). Per loro sfortuna, il Maestro di cui parla Torgo è l’immortale sacerdote di un culto pagano che venera l’oscuro dio Manos (“Mani” – lo stesso stregone indossa un mantello nero con sopra due belle manate rosse) e a cui piace aggiungere nuove mogli al suo già ampio harem.
Il film è la quintessenza dell’approssimativo: Warren, oltre a non capire un tubo di horror, ignorava qualsiasi nozione di cinema. Le scene si articolano in inquadrature spesso sovra o sottoesposte, fuori-fuoco o con bruschi cambi di dominante e montante in maniera più che dilettantesca. In un paio di giunte, si può addirittura vedere il ciak che sparisce fuoricampo. Poiché la Bell & Howell ad orologeria non permetteva di registrare il suono in presa diretta, l’intera pellicola venne doppiata in post produzione, con tre persone (tra cui lo stesso autore, ovviamente) ad interpretare tutti i personaggi. Inutile sottolineare come il parlato vada spesso fuori-sincrono. A completare il disastro tecnico, si aggiunge un improbabile accompagnamento musicale, che richiama gli strimpelli dei film muti.
Fenomenale per la sua folle idiozia la scena in cui il povero satiro Torgo (la cui goffaggine deriva dalle poco pratiche zampe caprine posticce) viene sacrificato dalle mogli del Maestro, che, in linea con il loro dio, lo palpano a morte! Il finale aperto lascia spazio per un seguito, che Warren non mise mai in cantiere: la leggenda vuole che, dopo essere riuscito a trovare una breve distribuzione per il suo esordio (nonostante un’umiliante e squallida anteprima), il nostro cercò per qualche tempo di produrre un biker movie, senza successo. In seguito, trasformò la sceneggiatura in un romanzo, che però nessuno gli volle pubblicare, costringendolo a tornare alla sua vera professione. Morì nel 1985. Il suo brainchild rimase nel dimenticatoio fino al 1993, quando fu parodiato dalla serie tv americana Mystery Theatre 3000 (basata su ironici commenti audio ad oscure pellicole di genere), che diede il via ad un crescente interessa per le discutibili gesta di Torgo e del Maestro. Inedito in Italia (a dimostrazione che a tutto c’è un limite), è disponibile negli USA in un DVD con tanto di extra.                                          Emiliano Ranzani

domenica 17 febbraio 2008

The freak show. C.H.U.D.


Spesso ingiustamente liquidato come un chiaro esempio di film trash, C.H.U.D. (acrostico per “Cannibalistic Humanoid Underground Dwellers”) è, diciamolo subito, un gioiellino.
La trama è semplice: in un quartiere di New York stanno avvenendo misteriose sparizioni, tra cui quella della moglie dell’Ispettore Bosch (Christopher Curry), che indaga sul caso assieme ad un ex-criminale, ora gestore di una mensa per senzatetto (Daniel Stern), e ad un foto-reporter (John Heard). Nelle loro indagini parallele, scopriranno che i responsabili sono degli homeless mutati in famelici mostri a causa di scorie radioattive illegalmente scaricate nelle fogne della città.
Nonostante una certa ingenuità della premessa di fondo (ma sintomatica di gran parte della cultura pop anni ’80), ciò che spesso sfugge agli spettatori occasionali è il rigore della trama, organica e senza sbavature. I personaggi sono ben caratterizzati ed interpretati da bravi attori che sanno dire le loro battute (spesso brillanti), cosa indispensabile visto l’alto tasso di dialoghi. La fotografia di Peter Stein (reduce dal secondo Venerdì 13, anch’esso meritevole di una degna edizione digitale) è sobria ma funzionale, con alcuni piccoli tocchi di classe nelle scene notturne. Nonostante lo score di David Hughes non sia eccezionale, il main theme resta nelle orecchie.
Il film, purtroppo, soffre per le limitazioni del budget e, ammettiamolo, per quelle della regia: Douglas Cheek (montatore di documentari) dirige con piattezza televisiva, limitando enormemente l’impatto delle scene di suspense e di azione. Nonostante il titolo, di sangue ne scorre poco, anche se qua e là fa capolino qualche testa mozzata. I mostri creati da John Caglione Jr (Friday the 13th part 2, Basket Case e vincitore dell’Oscar per Dick Tracy) sono degli stupendi pupazzoni gommosi, zannuti e viscidi, dotati di assurdi occhioni fluorescenti (d’altronde, sono radioattivi), ben valorizzati dall’illuminazione ad hoc. Stando a Shepard Abbott (autore del copione originale) e a Douglas Cheek, le creature in origine avrebbero dovuto essere più credibili, ma i limiti imposti dal produttore Andrew Bonime non permisero di fare di meglio. Bonime sarebbe inoltre responsabile dell’improbabile scena nella doccia (un’evidente scusa per mostrare un po’ di nudo, altrimenti assente nel film) e, proprio per questo, avrebbe insistito perché venisse inserita nel final cut. Sua infine anche la trovata del fallico collo estendibile di una delle bestiacce.
Il montaggio è ad opera di Claire Simpson, ex assistente di Cheek ed in seguito premiata con l’Oscar per Platoon di Oliver Stone. Oltre a Stern e Heard (che in seguito appariranno nei due Mamma Ho Perso L’Aereo) il film presenta una carrellata di volti noti ai posteri: la fidanzata-modella del fotografo è Kim Greist (Brazil, Manhunter), John Polito (Highlander, Il Corvo, Il Grande Lebowski) è un giornalista alla tv, Graham Beckel (L.A. Confidential) un barbone ed il grande John Goodman appare nei panni di un poliziotto nella scena dell’assalto alla tavola calda, originariamente pensata per l’inizio del terzo atto ma spostata in coda al film nella versione cinematografica. Nel 2000 la Anchor Bay ha pubblicato un’eccellente edizione DVD con il montaggio originale che, oltre ad approfondire la trama con alcune scene extra, restaura l’originale cronologia degli eventi, correggendo alcuni errori di continuità. La scelta di alterare il finale fu ovviamente pensata per lasciare la strada aperta per un seguito, che, finora, non si è mai concretizzato. Diffidate del truffaldino (ed inedito in Italia) C.H.U.D. 2: Bud The Chud: trattasi infatti di un film originariamente pensato come capitolo della serie Il Ritorno Dei Morti Viventi, ma misteriosamente rititolato all’ultimo momento. Evitabile, anche se Robert Englund (l’immortale Freddy Krueger) vi fa un cammeo.                                                                    Emiliano Ranzani

Incompresi. Comici allo sbaraglio: VINELLA E DON PEZZOTTA


I più giovani possono ricordare Giorgio Bracardi per alcune apparizioni tv e per l’ameno motivo Che felicità inserito nell’album Craccraccriccrecr di Elio e le Storie Tese. Quelli un po’ meno giovani sanno che è stato un pezzo importante della comicità italiana, a fianco di Renzo Arbore in trasmissioni di successo radiofoniche (Alto gradimento) e televisive (es. L’altra domenica). Ma al cinema è stato meno fortunato: dopo la partecipazione a Patroclooo! e il soldato Camillone, grande grosso e frescone, in cui compiva delle urlanti incursioni, l’attore fa nel 1976 il primo ed unico salto a protagonista, con un film di cui è co-autore di soggetto e musiche, mentre la sceneggiatura è dei prolifici Castellano & Pipolo. Ma il lavoro non ha alcun successo, anche se oggi è vivo nelle menti di alcuni intenditori e può essere visto grazie ad una vecchia registrazione tv, che putroppo si interrompe durante la canzoncina Scarafaggio blu sui titoli di coda. Bracardi interpreta Vinella, un bizzarro trovatello, devoto di un santo personale di nome Pentolino. Vive ed opera come sagrestano della parrocchia di un paese, nel quale scorrazza a cavallo della sua bici. Fino ad un certo punto il film rimane pressochè senza una trama, fin quando non nasce un confronto della parrocchietta di don Pezzotta con l’avveniristica Churchrama dell’americano padre Splendid, che propone un modo di vivere la religione “aggiornato” (memorabili le campane che suonano Nessuno mi può giudicare della Caselli e Splendid che si allena al poligono sparando contro un diavolo di cartone per compiere “esercizi spirituali”). Le due fazioni si sfidano ad una sorta di piccola olimpiade, mentre sulla parrocchia di don Pezzotta incombe l’ombra dello sfratto. Nonostante il titolo, protagonista assoluto è il Vinella di Bracardi. L’attore propone un personaggio, al solito, grottesco ed agitato. Il nome, la voce deformata -alta e nasale-, ed il tormentone verbale nonsense (“Chiàpalo chiàpalo!”) sono quelli di un suo personaggio di Alto gradimento, che però era un giornalista. Il film è, se non si è schizzinosi, piuttosto divertente e mantiene un buon ritmo, seppure verso la fine sia tirato per le lunghe e l’umorismo spesso non sia frutto di ingegnosità. Il protagonista è accostabile a quello degli altri film comici recensiti nelle scorse settimane: non certo un adulto responsabile, Vinella all’occorrenza gioca a gare di piscio in lungo con gli amici e per quanto riguarda l’amore, prende una cotta per la corpulenta Maria “la brutalona” che però non ha buon esito. Non siamo certo dalle parti di una commedia intinta nell’erotismo, come poteva essere vista l’epoca, ma da quelle di un cinema comico demenziale, più “pulito”, con uno spirito affine alla coeva serie di film, sempre diretti da Mino Guerrini, del colonnello Buttiglione. Infatti, nelle sequenze coi visitatori nella mensa della parrocchia, oltre ad un Bracardi che trova modo di esibirsi in due momenti al pianoforte tra musica e pernacchie, troviamo le gag relative al cibo immangiabile che sembrano provenire da quelle, in caserma, di Un ufficiale non si arrende mai, nemmeno di fronte all’evidenza. Firmato: colonnello Buttiglione. Prima dei titoli di coda vengono ironicamente fatti sfilare di fronte alla mdp e presentati gli attori principali: Bracardi dice di sé “per la prima e forse ultima volta sullo schermo”. Non sarà vero, ma forse il film resta il suo exploit più significativo sul grande schermo.                                                                       Alessio Vacchi

Memorabilia. ROMBO DI TUONO e INVASION U.S.A.


Dopo l'ultimo aggiornamento, proseguiamo con un altro eroe dell'action che negli stessi anni era in piena attività. Chuck Norris è ancora ricordato grazie alle repliche di Walker Texas Ranger ed ai Chuck Norris facts, le boutades sull'invincibilità ed onnipotenza del suo personaggio. Classe 1940, ha ancora interpretato un film da protagonista nel 2005. Ma il cuore del suo cinema -su cui mi piacerebbe fare, in questo blog, una carrellata completa...- sta nel decennio 80, in cui è stato uno degli alfieri, subito dopo Schwarzy e Stallone, dell' action movie Usa. I due film qui scelti sono stati prodotti dagli attivissimi Golan e Globus con la loro Cannon ed hanno flani che ci propongono un Norris iconico, incazzato o semplicemente serio ma comunque con le armi in pugno. "Inarrestabile" è aggettivo sensato, dato che Rombo di tuono ha avuto due seguiti, mentre la frase pubblicitaria di Invasion U.S.A., quantomeno esagerata, sembra anticipare alla lontana proprio le battute che oggi tengono vivo il "culto" dell'attore.                                    Alessio Vacchi

domenica 10 febbraio 2008

Incompresi. Comici allo sbaraglio: VOGLIAMOCI TROPPO BENE


“Ti ricordi di me?” canta Francesco Salvi sui titoli di testa del film, punteggiato da vari suoi brani danzerecci. Ma il film in questione, “un film comico ma da ridere” come recitava la frase di lancio, è finito immediatamente nel dimenticatoio. A fine anni Ottanta il comico andava in onda su Italia 1 con una sua trasmissione da mattatore, MegaSalviShow, ancora replicata a tarda notte. Sembrava quindi un’operazione sensata sbarcare al cinema da protagonista (in parti minori era già comparso, si veda almeno Fracchia la belva umana), in un film che lo vede anche regista e co-sceneggiatore. Alla scrittura lavora anche Lorenzo Beccati, autore sodale di Antonio Ricci ed alla fotografia c’è Camillo Bazzoni, che era stato anche regista (plausibile che abbia qui aiutato l’esordiente Salvi dietro la mdp). La Warner Bros distribuisce il film in periodo natalizio 1989 ed è un grande insuccesso tanto che, dopo una benemerita pubblicazione su vhs Deltavideo, Vogliamoci troppo bene sparisce. L’esuberante attore interpreta un marito che, partiti moglie -Barbara D’Urso, proprio lei- e figlio per una vacanza, si ritrova in pieno agosto a passare il tempo in città coi suoi tre amici, tra i quali Enzo Braschi e Marco Predolin (sì, proprio il conduttore tv). Il film sembra prendere una piega alla Quando la moglie è in vacanza nel momento in cui il protagonista trova una bella ragazza stesa davanti al suo portone -Holly Higgins, doppiata in perfetto italiano nonostante interpreti un’americana. Lei sostiene di essere sposata a lui, che non rammenta. Stando insieme cercherà di fargli ricordare e scopriranno affinità, mentre gli amici li tampinano, sospettosi e visionari. Se il personaggio di Salvi è quello di un bambinone -infatti, lui ed i suoi amici adulti giocano quando sono insieme-, con un modo di muoversi, di esprimersi, di utilizzare la mimica facciale e di vestirsi improntato allo scherzo perenne, il suo film risulta rappresentativo di questo spirito, segnato da un’attitudine giocosa nell’approcciarsi al cinema: si rivolge alla mdp, la sospensione di incredulità è bombardata da gag surreali e metacinematografiche -un esempio: quasi al termine, viene visto e commentato un manifesto che pubblicizza il film stesso-, ci sono addirittura uno sconfinamento in un videogioco ed un inserto animato. Non è quindi una trasposizione annacquata della sua comicità, sebbene il risultato finale sia piuttosto simpatico anche se stupidino (d’altronde, la comicità di Salvi è volutamente demenziale seppure mai volgare) ed inconsistente, un susseguirsi di gag a volte sorprendenti ed indovinate (certi giochi con le convenzioni del cinema, la sequenza della telefonata pre-salvataggio), qualche volta più improntate ad uno spirito di patata. Sui titoli di coda, alcuni ciak sbagliati e secchiate d’acqua sul set, prima che venga ringraziata “Luino in persona”. Sul suo sito, Salvi propone uno stralcio della “Storia della cultura mondiale di tutti i tempi e paesi...”, l’opera che il protagonista del film sostiene di stare scrivendo.                                     Alessio Vacchi

Tra pagina e schermo. L'ACCHIAPPASOGNI


Usa/Canada/Australia 2003. Di Lawrence Kasdan. Con Morgan Freeman. Su dvd Warner.

In una sperduta località di montagna, una comitiva di amici decisi a trascorrere il week-end in una baita entra in contatto con una persona che sembra essersi perduta e mostra strani sintomi patologici. Scopriranno a loro spese che alcuni sventurati (fra i quali il degente da loro ospitato) sono stati infettati da uno strano parassita alieno, che incuba nelle viscere delle sue vittime e una volta liberatosi è in grado di estendere il contagio a macchia d’olio. Senza contare che uno dei villeggianti sembra essere stato soggiogato psichicamente dall’intelligenza extraterrestre, trasformandosi in inarrestabile macchina di distruzione; e che uno spietato ufficiale dell’esercito è deciso a contenere l’infezione con qualsiasi mezzo, anche poco ortodosso.
Adattare per lo schermo un romanzo di Stephen King è sempre un azzardo. Ci han provato in tanti, ma ricreare le atmosfere dei suoi racconti neri è arduo, il rischio è sempre quello di deludere i fans. Questo Dreamcatcher non sarebbe neanche spregevole: un fanta-horror a metà strada fra Alien e La cosa, all’insegna del grand guignol e dell’antimilitarismo, senza disdegnare rivolti fiabeschi sui temi dell’amicizia, dell’innocenza e del sacrificio. La prima parte del film funziona proprio in virtù della fedeltà al testo letterario; ma è nella seconda metà che la sceneggiatura frana di brutto. Svanisce quell’ambiguità di fondo che era alla base della simbiosi fra il parassita alieno e l’ospite umano (da chi dei due realmente provenivano le pulsioni distruttive?); il personaggio del ragazzino disabile ma in un certo qual modo in grado di vedere cose misteriose proprio grazie alla propria purezza di cuore (già deboluccio sulla carta, ammettiamolo) viene ulteriormente banalizzato, trsformandosi in una sorta di E.T. in incognito (e qui la verosimiglianza cade del tutto) destinato ad affrontare e sconfiggere (definitivamente?) l’incarnazione extraterrestre dell’Oscurità. Diveramente da quanto accadeva nel finale romanzesco, simile a quello di un altro libro dell’autore, IT: lì il mostro veniva fermato grazie al sacrificio di uno degli ex-amici d’infanzia riunitisi per affrontarlo, guidati da una non meglio precisata entità cosmica benevola (è un tema ricorrente nella narrativa dello scrittore del Maine, quello dell’infanzia perduta come talismano in grado di fugare le Tenebre). Chissà se Kasdan ha concepito il finale con sottintesi ironici? Di sicuro le somiglianze con certa fantascienza demenziale anni 50 ci sono, volute o no.
Tirate le somme, i riferimenti alla fantascienza paranoica da Guerra Fredda son più marcati nel film di quanto lo fossero nel libro; con un’aggiunta antimilitarista anch’essa più accentuata rispetto a quella romanzesca, che difficilmente avrebbe trovato posto in una sceneggiatura sf anni 50. Estremamente cruenta la prima parte, che come già detto riprende fedelmente il testo kinghiano. Pare che il film al Re sia piaciuto molto, finale compreso. Boh…                              Corrado Artale

Memorabilia. RAMBO 2 e ROCKY IV



  
 
Prossimi all'uscita italiana di John Rambo, facciamo un salto indietro in pieni anni Ottanta, quando Stallone aggiunge due tasselli alle sue strafamose saghe. A Natale 1985 il secondo Rambo sbarca nelle sale e si invita a seguire bene gli orari per evitare resse. Le frasi di lancio sono sempre piuttosto perentorie, come lo è anche quella di Rocky IV, che esce da noi giusto un paio di mesi dopo. Come a dire: di fronte alle armi ed ai pugni di Stallone, poche storie, si entra in sala e basta.
                                                                            Alessio Vacchi

domenica 3 febbraio 2008

Comunicazioni di servizio. SCUSA MA TI CHIAMO BUFALA


Scusa ma ti chiamo amore è uscito ed ha fatto il botto. Successo scontato, ma non è questo che si intendeva far notare. Numerosi siti (cercate con Google: esordio Moccia) , fonti cartacee e -presumo...- anche televisive l'hanno sagacemente contrabbandato come l'esordio alla regia del fortunato Federico Moccia. Il che è semplicemente falso. Escludendo le esperienze da sceneggiatore cinematografico (che includono Natura contro, un truce film d'avventura che metterebbe in imbarazzo le fan) e televisivo (es. College), Moccia ha esordito alla regia nel 1987 con lo sconosciuto Palla al centro, per poi dirigere nel 1996 Classe mista 3a A, commedia di ambientazione scolastica che vede in un ruolino anche Paolo Bonolis e che è stata pure trasmessa in televisione alcune volte. Capisco che faccia effetto lanciarlo come un esordiente, ma per trovare queste informazioni basta avere una connessione internet...                                        Alessio Vacchi

Incompresi. I LOVE YOU


Francia/Italia 1986. Su dvd General.

Dev’essere un piccolo shock per chi ha apprezzato il Cristopher Lambert immortale e combattivo del film che l’ha reso noto, Highlander, vederlo qui masturbarsi guardando una faccetta di plastica appiccicata al televisore. I due film sono usciti lo stesso anno, ma I love you è rimasto uno dei lavori meno noti del suo (grande) regista, Marco Ferreri. Che qui porta avanti un discorso sulla crisi dell’uomo (inteso come sesso maschile) e sulla sua solitudine. Ma i collegamenti con la sua filmografia sono molteplici: il film ricorda Break-up con Mastroianni per la fissazione del protagonista, là verso un’idea qui verso un oggetto, ed i futuri La carne (con Francesca Dellera) e Diario di un vizio (Jerry Calà) per la scelta di un protagonista più famoso/bello che bravo. Inoltre, negli ultimi minuti I love you si ricollega esplicitamente ad uno dei suoi film più famosi, Dillinger è morto: il protagonista ed il suo coinquilino ne guardano il finale, che dà la volata alla conclusione di questo film, modellata su quello. Ferreri a parte, citiamo anche il recentissimo Lars e una ragazza tutta sua, in cui un ragazzo sceglie e presenta come compagna un simulacro di donna.
Ma torniamo al film in sè. Lambert interpreta un uomo ben considerato dall’altro sesso, che però prende una crescente infatuazione per un portachiavi (sì, avete letto bene) avente le fattezze di un grazioso faccino femminile. Fischia in continuazione perché l’oggetto reagisca al rumore dicendogli “I love you”, gli parla, si ingelosisce, insomma prende a preferirlo rispetto alle donne in carne ed ossa. Le quali, va detto, sono a volte caratterizzate in modo da non dargli del tutto torto, un po’ pazze. Forse per estremo infantilismo, o per paura di impegnarsi, si sente più a suo agio con quel faccino inanimato che gli risponde sempre, confortevolmente, con la stessa frase. Va in crisi quando, facendosi male ad un dente, non riesce più a fischiare, unica forma della comunicazione a senso unico con “l’amata”. Nonostante il soggetto alquanto bizzarro, non si tratta di un film malato a livello di messinscena, o rigoroso come Dillinger è morto; né, a dire il vero, si fa notare per scelte stilistiche, pure la fotografia è semplice e luminosa. Tuttavia è un tassello interessante e sorridente nella filmografia del regista, che merita la visione. Lambert, pur essendo un attore limitato, non risulta antipatico, anzi sembra sfoderare una certa ironia nel muoversi dentro un personaggio simile. Doppiaggio piuttosto scarso, escluso forse il suo. Piccolo ruolo -il dentista- per un riconoscibile Jean Reno.
                   Alessio Vacchi

The freak show. LA MASCHERA DELLA MORTE


Blade Runner, 47 minuti 25 secondi: Richard Deckard\Harrison Ford è in uno strip-bar del Quarto Settore. Il Cacciatore di Replicanti si avvicina a Taffey Lewis, il poco amabile proprietario del locale, con cui ha un rapido scambio di battute: il personaggio non ritornerà più in tutto il film, ma per Hy Pyke, il caratterista che lo interpreta, quella scena, che la leggenda vuole essere stata girata in un solo ciak, è l’apice della carriera. Un cursus honorum il suo che già annovera titoli come il vagamente lovecraftiano Lemora: A Child’s Tale of the Supernatural ed il vampiresco Nightmare in Blood e che proseguirà saltuariamente, per lo più in piccoli ruoli di secondo piano, fino al 1995, con un’ unica eccezione: La Maschera Della Morte appunto, dove il suo nome svetta sui titoli di testa con un glorioso “Hy Pyke in” a sancirne lo status di co-protagonista. Anche senza sapere chi sia costui (anzi, soprattutto non sapendolo), chiunque in quel momento dovrebbe avere un’idea abbastanza chiara di che cosa lo attende.
Infatti, quest’oscura pellicola marchiata 1988, distribuita negli USA straight-to-video con ben tre titoli (Halloween Night, Hack-o-Lantern e Death Mask), è un mortalmente becero ibrido tra lo slasher movie e l’horror satanico, talmente brutto da deprimere, nonché la prova definitiva di come gli anni ’80 siano stati un periodo irripetibile: non perché film simili venissero prodotti, ma per il fatto che gli stessi fossero acquistati e doppiati in diversi paesi del Mondo. Nel nostro in particolare, i responsabili furono i tipi della gloriosa Multivision, anche loro con in mente il solo mercato home video. Girato in 16mm da Jag Mundhra, regista ed ex professore indiano trapiantato in America (già macchiatosi del thriller Open House con l’ex-signora Carpenter Adrienne Barbeau), La Maschera Della Morte si apre con un prologo in cui vediamo un amorevole quanto strambo nonno (Pyke, per l’appunto) regalare un zucca di Halloween a Tommy, il suo preferito tra i tre nipoti, cosa che preoccupa particolarmente la di lui figlia ed il genero. Quella sera stessa (che, sfiga vuole, è anche la notte di Ognissanti), il padre del ragazzo si reca alla fattoria del suocero dove assiste di nascosto ad una messa nera nel granaio prima di essere avvicinato dall’innominato Nonno, che scopriamo così essere a capo di una setta satanica (quattro idioti incappucciati di rosso). Dopo un breve scambio di battute con l’anziano stregone (“Stai lontano da Tommy!” – “Tommy non è mai stato tuo!”), l’uomo viene stordito da una martellata ed arso vivo nella sua macchina.
Flash-forward di una decina d’anni: è di nuovo la vigilia di Halloween e Tommy è un ragazzone dark succube del Nonno, il quale ha in mente grandi progetti per lui da realizzare quella notte stessa (quali che siano, non lo capiremo mai con esattezza). Contemporaneamente, gli adolescenti dell’ignota cittadina in cui si svolge l’azione si stanno preparando per la festa di Halloween al locale liceo. Ed una misteriosa figura mascherata inizia a mietere vittime.
Andiamo con ordine: gli attori sono imbarazzanti, spesso espressivi come un cactus ed ancora più nocivi quando tentano ricorsi alla mimica facciale (ed il doppiaggio italiano non aiuta per niente). Ovviamente, Pyke è il “migliore”, quantomeno il più pittoresco esemplare del lotto: da antologia il modo in cui sventaglia sulla faccia di tutti le mani chiuse a corna per far vedere quanto è satanico. Da sottolineare la presenza della pornostar Jeanna Fine che, nei panni della ragazza inevitabilmente punk di Tommy, ci offre il più dettagliato dei diversi, discutibili nudi di cui è popolato il film – e che viene ammazzata in una squallida (in tutti i sensi) imitazione di uno degli omicidi di Halloween.
A ciò aggiungete degli effetti speciali da supermercato, uno score elettronico che più cheap non si può, scene cretine, battute deliranti, assurdi stereotipi e, soprattutto, una messinscena poverissima, da filmino amatoriale: basti pensare che quella indossata dall’assassino è una ridicola maschera di gomma, del tipo che quasi sicuramente si trovava in vendita nei centri commerciali all’epoca delle riprese.
Mundhra, anche montatore, utilizza il minor numero d’inquadrature possibili e ha il vizio d’intercalare diverse scene con flashback rapidissimi, quasi subliminali per approfondire l’inapprofondibile e banale trama scritta dalla sua aiuto regista Carla Robinson, il cui unico pregio è un relativamente inaspettato twist finale. Impagabili gli escamotage per allungare il pappone annoveranti riti satanici a random, un asfissiante stand-up comic che si esibisce per la gioia dei partecipanti alla festa (luogo dell’ultimo atto, popolato esclusivamente da tristi trent’enni) e, meraviglia delle meraviglie, un economico sogno-videoclip sulle sgangherate note dell’eloquente Devil’s Son dei D.C. Lacroix (una band heavy metal dalla carriera lunga ben due album). Chapeau.                                       Emiliano Ranzani

Memorabilia. BODY OF EVIDENCE



Il 1992 è un anno di scelte scabrose per Madonna. A fronte della commedia sportiva Ragazze vincenti, fa uscire l'album Erotica, il libro fotografico Sex e dulcis in fundo gira questo film, che esce quando non si è ancora spenta l'eco di un altro più fortunato thriller di seduzione, Basic instinct. Infatti, una delle frasi sopra riportate sembra voler scagionare la protagonista dall'accusa di rifarsi alla Stone. Body of evidence è un film simpatico ma poco più, per un pubblico di fans maschi, in cui la cantantattrice è una donna perversa-e-forse-assassina che intorta l'avvocato che la deve difendere (un Willem Dafoe che ha girato di meglio). L'accoglienza del film è stata inferiore alle attese: nella stagione cinematografica italiana 1992-93 il film si è posizionato 46esimo (fonte hitparadeitalia.it). Sul cinema di Madonna, comunque, torneremo.                         Alessio Vacchi