domenica 3 febbraio 2008

The freak show. LA MASCHERA DELLA MORTE


Blade Runner, 47 minuti 25 secondi: Richard Deckard\Harrison Ford è in uno strip-bar del Quarto Settore. Il Cacciatore di Replicanti si avvicina a Taffey Lewis, il poco amabile proprietario del locale, con cui ha un rapido scambio di battute: il personaggio non ritornerà più in tutto il film, ma per Hy Pyke, il caratterista che lo interpreta, quella scena, che la leggenda vuole essere stata girata in un solo ciak, è l’apice della carriera. Un cursus honorum il suo che già annovera titoli come il vagamente lovecraftiano Lemora: A Child’s Tale of the Supernatural ed il vampiresco Nightmare in Blood e che proseguirà saltuariamente, per lo più in piccoli ruoli di secondo piano, fino al 1995, con un’ unica eccezione: La Maschera Della Morte appunto, dove il suo nome svetta sui titoli di testa con un glorioso “Hy Pyke in” a sancirne lo status di co-protagonista. Anche senza sapere chi sia costui (anzi, soprattutto non sapendolo), chiunque in quel momento dovrebbe avere un’idea abbastanza chiara di che cosa lo attende.
Infatti, quest’oscura pellicola marchiata 1988, distribuita negli USA straight-to-video con ben tre titoli (Halloween Night, Hack-o-Lantern e Death Mask), è un mortalmente becero ibrido tra lo slasher movie e l’horror satanico, talmente brutto da deprimere, nonché la prova definitiva di come gli anni ’80 siano stati un periodo irripetibile: non perché film simili venissero prodotti, ma per il fatto che gli stessi fossero acquistati e doppiati in diversi paesi del Mondo. Nel nostro in particolare, i responsabili furono i tipi della gloriosa Multivision, anche loro con in mente il solo mercato home video. Girato in 16mm da Jag Mundhra, regista ed ex professore indiano trapiantato in America (già macchiatosi del thriller Open House con l’ex-signora Carpenter Adrienne Barbeau), La Maschera Della Morte si apre con un prologo in cui vediamo un amorevole quanto strambo nonno (Pyke, per l’appunto) regalare un zucca di Halloween a Tommy, il suo preferito tra i tre nipoti, cosa che preoccupa particolarmente la di lui figlia ed il genero. Quella sera stessa (che, sfiga vuole, è anche la notte di Ognissanti), il padre del ragazzo si reca alla fattoria del suocero dove assiste di nascosto ad una messa nera nel granaio prima di essere avvicinato dall’innominato Nonno, che scopriamo così essere a capo di una setta satanica (quattro idioti incappucciati di rosso). Dopo un breve scambio di battute con l’anziano stregone (“Stai lontano da Tommy!” – “Tommy non è mai stato tuo!”), l’uomo viene stordito da una martellata ed arso vivo nella sua macchina.
Flash-forward di una decina d’anni: è di nuovo la vigilia di Halloween e Tommy è un ragazzone dark succube del Nonno, il quale ha in mente grandi progetti per lui da realizzare quella notte stessa (quali che siano, non lo capiremo mai con esattezza). Contemporaneamente, gli adolescenti dell’ignota cittadina in cui si svolge l’azione si stanno preparando per la festa di Halloween al locale liceo. Ed una misteriosa figura mascherata inizia a mietere vittime.
Andiamo con ordine: gli attori sono imbarazzanti, spesso espressivi come un cactus ed ancora più nocivi quando tentano ricorsi alla mimica facciale (ed il doppiaggio italiano non aiuta per niente). Ovviamente, Pyke è il “migliore”, quantomeno il più pittoresco esemplare del lotto: da antologia il modo in cui sventaglia sulla faccia di tutti le mani chiuse a corna per far vedere quanto è satanico. Da sottolineare la presenza della pornostar Jeanna Fine che, nei panni della ragazza inevitabilmente punk di Tommy, ci offre il più dettagliato dei diversi, discutibili nudi di cui è popolato il film – e che viene ammazzata in una squallida (in tutti i sensi) imitazione di uno degli omicidi di Halloween.
A ciò aggiungete degli effetti speciali da supermercato, uno score elettronico che più cheap non si può, scene cretine, battute deliranti, assurdi stereotipi e, soprattutto, una messinscena poverissima, da filmino amatoriale: basti pensare che quella indossata dall’assassino è una ridicola maschera di gomma, del tipo che quasi sicuramente si trovava in vendita nei centri commerciali all’epoca delle riprese.
Mundhra, anche montatore, utilizza il minor numero d’inquadrature possibili e ha il vizio d’intercalare diverse scene con flashback rapidissimi, quasi subliminali per approfondire l’inapprofondibile e banale trama scritta dalla sua aiuto regista Carla Robinson, il cui unico pregio è un relativamente inaspettato twist finale. Impagabili gli escamotage per allungare il pappone annoveranti riti satanici a random, un asfissiante stand-up comic che si esibisce per la gioia dei partecipanti alla festa (luogo dell’ultimo atto, popolato esclusivamente da tristi trent’enni) e, meraviglia delle meraviglie, un economico sogno-videoclip sulle sgangherate note dell’eloquente Devil’s Son dei D.C. Lacroix (una band heavy metal dalla carriera lunga ben due album). Chapeau.                                       Emiliano Ranzani

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