domenica 27 aprile 2008

Io c'ero. Festival ed eventi vari. DA SODOMA A HOLLYWOOD 23, Torino, 17-25/4/2008. PEPI, LUCI, BOM E LE ALTRE RAGAZZE DEL MUCCHIO


Spagna 1980. Di Pedro Almodovar. Con Carmen Maura. Su dvd General.

Primo passo nel lungometraggio di quello che diventerà uno dei più noti registi del suo paese. Proiettato alla presenza di Alaska (Bom), che oggi è una signorona coi capelli arancioni, è un film breve e consapevolmente sgangherato, che trae forza dal suo essere senza freni e sboccato, risultando spesso divertente. Un soggetto c'è: questioni di vendetta, quella di Pepi verso un poliziotto che la prende "con la forza" (diciamo così), dopodichè lei fa legare la sua giovane, trasgressiva amica Bom a Luci, repressa e masochista moglie del tutore dell’ordine. Come primo contatto, Bom le orina addosso -prima scena girata sul set da una giovanissima Alaska-.
Ma la questione della vendetta assume presto un’importanza vaga ed in mezzo abbiamo anche facezie quali una gara a chi ce l’ha più lungo, alcuni concertacci di Bom e dei finti spot di mutande che, forse per il tema “basso”, ricordano quelli degli Squallor di Arrapaho, film di qualche anno successivo. Il personaggio di Luci ne esce come una donna persa nel suo masochismo, mentre la più “equilibrata” del trio sembra Pepi. Un po’ appesa rimane la questione del film nel film, che Pepi accenna di voler girare in alcune scene. E’ interessante vedere oggi questo esordio: qualcosa è rimasto nel cinema di Almodovar -l’importanza delle figure femminili-, altro si è perso alla ricerca di una maggiore qualità formale e capacità di contenersi, raggiungendo risultati di pregio, anche se certamente meno divertenti. Cameo del regista, con baffi e zazzera.                                             Alessio Vacchi

Io c'ero. Festival ed eventi vari. DA SODOMA A HOLLYWOOD 23. CENTER STAGE


Hong Kong 1992. Di Stanley Kwan. Su dvd Tai Seng (Jap, regione 0).

Ultimo film di Kwan prima del suo coming out col documentario Yang ± Yin: Gender in Chinese Cinema, è la biografia di Ruan Lingyu, stella del cinema cinese dei primi anni 30. Una vita breve la sua: nonostante il successo, il suo legarsi ad un importante produttore in stato di "concubinaggio" alla lunga le causerà dei problemi che non sarà in grado di districare, scegliendo di togliersi la vita.
Center stage è un film curato e diligente, che però nell'illustrare il mondo del cinema a cui fa riferimento, sceglie subito una ingenua didascalicità dal quale non riesce a sollevarsi abbastanza. Non è un difetto insopportabile, visto che il cinema cinese intorno al muto non è proprio materia conosciuta, ma si fa sentire. Nel legare personaggi e contesto, il regista farà meglio col suo ultimo Everlasting regret. Va meglio nell'ultima parte, quando diventa più melò perchè esplode il dramma di lei, divisa tra due uomini ed esposta alla curiosità pubblica. Qui Kwan imbrocca bene due scarti: i saluti di lei a tavola montati in alternanza con i saluti dei conoscenti postmortem e lei che balla mentre la sua voce over dice già passi dalla lettera che, di lì a poco, scriverà come testamento (anche se questo è leggermente tirato per le lunghe).
Il film non si svolge solo sul semplice piano della ricostruzione e della vicenda di lei. C’è anche del metacinema, piccole parti in cui regista ed attori si mettono in scena in quanto tali e si dice qualcosa del film in fieri: una introduzione in cui Kwan chiede alla sua attrice se le piacerebbe essere ricordata a distanza di anni come il personaggio che sta per interpretare, lui e lei che ascoltano le parole del biografo di Ruan, oppure la scena del pianto a letto che prosegue in scioltezza con la ripresa della scena stessa sul set. Questo aspetto, comunque, cade nella spocchia quando Kwan mostra di rifare paro paro scene di alcuni film sopravvissuti della sfortunata attrice, mostrando subito dopo la scena originale. Un omaggio-dimostrazione di bravura fine a sé stesso. Lo sguardo benevolo/ammirato verso l’attrice omaggiata sembra riverberarsi anche sull'attrice protagonista, una impegnata Maggie Cheung: si veda ad esempio la scena in cui lei è lasciata in scena a ballare, morbidamente.
Alessio Vacchi

Io c'ero. Festival ed eventi vari. DA SODOMA A HOLLYWOOD 23. IL FAUT QUE JE L'AIME + WILD SIDE


Francia 1996. Con Valérie Mréjen.                
Francia/Belgio/UK 2004. Con Stéphanie Michelini. Su dvd Dolmen.


Doppio programma in una serata dedicata al regista francese Sébastien Lifshitz, di cui il festival ha proposto la retrospettiva. Il primo lavoro -il suo esordio- è un corto notevole, che per ammissione di Lifshitz risente, nell’utilizzo di inquadrature fisse, della sua formazione da fotografo. In scena, solo una ragazza seduta al tavolo. Sarà per qualche primo piano, per il suo volto non sereno o per il bianco e nero, ma viene in mente la Giovanna d’Arco di Bresson (non Besson, eh). Fuori campo, i dialoghi del passato, da cui si intende che lei ha abbandonato il suo uomo e conosciuto una ragazza. Da un lato, quindi, questa storia ricostruita verbalmente, dall’altro la protagonista, “passiva” -non si ode la sua voce- che pensa e soffre nel presente. Toccante.
Wild side è invece l'ultimo lungometraggio del regista -che ha annunciato di starne preparando un altro. "una sorta di road movie che conterrà della violenza". Aperto in modo curioso con Antony (...degli "& the Johnsons") che canta senza accompagnamento un suo brano contenente l'eloquente verso "Are you a boy or a girl?", il film è un po’ una tranche de vie di un singolare trio amoroso: due lui, più Stéphanie, cioè una lei che è un lui -e Lifshitz lo chiarisce subito eloquentemente-, nel momento in cui la madre di Stéphanie sta male e questa torna al paese natio, coi due amanti, per starle vicino. Alcune cose dette da Lifshitz aiutano a capire: il preferire le immagini alle parole, il voler lasciare qualcosa allo spettatore di modo che egli non sia “dominato” dal film. Infatti Wild side, nonostante il sesso, è segnato dalla misura: nella recitazione, nella chiusura delle scene. Ottima ed esemplificativa a riguardo la gesione del lutto finale. C’è un utilizzo moderato della musica, che solo ogni tanto si “apre” e non si parla molto. Il sesso appunto: sia nella dimensione marchettara, praticato da due dei tre, che nella dimensione privata e le due cose sono destinate a toccarsi nella scena col guardone, che chiede di vedere un loro rapporto.
Il senso che emerge può essere quello del vivere e dell’andare avanti, grazie alla forza dei legami e dei sentimenti. Questo nonostante la barriera linguistica che porta i protagonisti a comunicare in modo difficile (e comico, nella scena al ristorante). D’altronde il capirsi ed il riconoscersi entrano in gioco anche nel rapporto del trans con la madre e nel reincontro con una vecchia fiamma. L’emozionalità è molto trattenuta, ma qualcosa rimane. Non sempre utile, forse, il frequente confronto col passato, attraverso le scene d’infanzia “della” protagonista. Nell’incontro con Lifshitz, è emerso che la questione della lingua russa di uno dei personaggi non era prevista in sceneggiatura ma è nata sul set dall’attore, e che il suo personaggio avrebbe dovuto essere un soldato disertore -e un indizio nel film pare esserci, quando guarda un servizio con soldati in tv-.
                          Alessio Vacchi

Io c'ero. Festival ed eventi vari. DA SODOMA A HOLLYWOOD 23. LUST IN THE DUST


Usa 1985. Di Paul Bartel. Su dvd Anchor Bay (regione 1).

Mica ci sono solo i Trinità et similia. Rimasto inedito in Italia, Lust in the dust è un western buffonesco che vede come presenza predominante il mitico travestitone Divine, attore fetticio di John Waters -di cui il festival ha esposto quest'anno la discografia completa-. Il film si prende gioco di un tot di elementi del genere: si inizia con una ballatona in colonna sonora, dopodichè vediamo Divine in un paesaggio assolato, presenza ingombrante e "incongrua". Incontrato un gringo serio e di poche parole come tradizione vuole, giunge in una cittadina e nel suo saloon, gestito da una prosperosa donna. Intelligente trovata: le due formano una strana coppia, entrambe di una certa stazza, ma…una è realmente donna! C’è di mezzo la ricerca di un bottino, che ovviamente fa gola a più contendenti. Non mancano scontri a fuoco semiseri e una gran rissa tra le due “donne”. Oltre che una sgraziata esibizione canora da parte di Divine, una prova per essere accettata come cantante nel saloon ma che risulta fallimentare. Parte molto bene, nel complesso risulta divertente anche se non irresistibile. Comunque, degni di nota gli ultimi minuti, con una delle sfide finali più strambe mai viste. Nel cast, due presenze maschili da notare: il “Leoniano” Woody Strode ed Henry Silva, presenza frequente del nostro poliziesco/noir anni 70 in una delle intepretazioni migliori: lo humour del tutto sembra donare mobilità al suo volto solitamente legnoso. La questione delle mappe sui sederi, poi, si rintraccia in un film di Margheriti di undici anni prima, Là dove non batte il sole.                            Alessio Vacchi

Io c'ero. Festival ed eventi vari. DA SODOMA A HOLLYWOOD 23. JOY DIVISION


Uk/Usa 2007. Di Grant Gee.

Lo storico gruppo vive un momento di attenzione cinematografica. C'è Control, film di fiction (ma a quanto pare rispettoso e fedele) sul cantante Ian Curtis e c'è poi questo documentario. Che ripercorre la breve parabola della formazione inglese e del loro frontman, dagli incerti inizi, alla creazione dei due album, all'esplodere dei problemi di Curtis, che gli stessi suoi compagni ammettono di non essere riusciti a capire davvero mentre avvenivano, nonostante i cupi testi che scriveva. Seguito da una sala piuttosto attenta, il lavoro è molto interessante e persino emozionante, anche senza essere fans. Gee interpella chi c’era e fa sentire una certa quantità di musica, utilizzando brani di preziose registrazioni delle esibizioni live; testimonianze che restituiscono le vibranti performance di Curtis che, come viene detto nel documentario, era persona tranquilla ma che sul palco con la musica andava come in trance. Verso la fine poi, avvicinandosi alla morte di Curtis, il tutto rallenta e musica se ne sente di meno. Privo di tempi morti e montato con ritmo sostenuto -il che rende a volte difficile seguire i sottotitoli, ma amen-, è certo un lavoro più informativo-ricognitivo che “artistico”, ma è riuscito. L’unica cosa leggermente meno convincente è la cornice che cerca di dire qualcosa sull’Inghilterra di ieri/oggi, ma sono minuzie.                                      Alessio Vacchi

domenica 20 aprile 2008

Io c'ero. Festival ed eventi vari. DA SODOMA A HOLLYWOOD 23, Torino, 17-25/4/2008. RAGAZZE IN UNIFORME


Germania 1931. Di Leontine Sagan. Con Dorothea Wieck. 

Ovvero, come poteva essere proposta una storia di attrazione tra donne, meglio tra una ragazza orfana chiusa in un rigido collegio femminile e la più apprezzata delle sue insegnanti, in un'epoca non propriamente libertaria. Il film ha il suo interesse, più che nella descrizione della vita delle ragazze -narrativamente qui si muove poco ed insufficiente è il tratteggio psicologico delle fanciulle-, proprio nel versante lesbico. Parola, questa, che non viene mai pronunciata: probabilmente i realizzatori sarebbero stati lanciafiammati -e già così pellicola e regista hanno avuto problemi-, ma se l'insegnante von Bernburg, che cerca di tenere a bada i suoi sentimenti in nome del suo ruolo e della morale che si dovrebbe addire all'istituto, dice all'allieva “Ti penso spesso”, verso la fine la la ragazza le dice: “Io la amo”. E quando poi la von Bernburg tenta di convincere la anziana ed arcigna direttrice, si lancia in un discorsetto molto progressista riguardo i sentimenti, che appare coraggioso per l'epoca. Nonostante per il resto il film risulti ingenuo e grazioso, risulta avere le palle, come si suol dire, per certi aspetti. Si veda anche la sequenza della visita della principessa, momento istituzionale in cui tutto dev'essere rigorosamente in riga ed i problemi posti sotto il tappeto. Molti "fegatelli" e talora mancano i rumori d’ambiente, ma in un film del 1931 lo si manda giù.                       Alessio Vacchi

Io c'ero. Festival ed eventi vari. DA SODOMA A HOLLYWOOD 23. MALA NOCHE


Usa 1985. Con Tim Streeter. Su dvd Criterion (regione 1).

Girato con budget ridotto ma reso più apprezzabile da una buona fotografia e da un’assoluta  mancanza di sciattezza stilistica, l'esordio di Gus Van Sant è un buon film che mostra già un regista di pregio; si intravvede per esempio uno sguardo peculiare, attento, verso le presenze umane (i pp sui volti dei messicani, la scena d’amore ripresa con piani stretti e spezzettata).
La voce over del protagonista Walt fa le sue considerazioni, tenta un’analisi di sé stesso e della sua attrazione verso i ragazzi messicani, in modo particolare per uno di nome Johnny che vede spesso insieme ad un amico. E' verso di lui che, quando Johnny sembra sparire, Walt dirotta le sue premure, cercando di colmare la sua ossessione. Intelligentemente Van Sant fa poco per rendere simpatici questi oggetti del desiderio di Walt: emergono in tutto il loro cazzeggio, poche parole –l'inglese non è la loro lingua-, irresponsabilità (le scene al volante) e inaffidabilità, dovuta anche alla precaria situazione con la legge. E’, il loro, un mondo altro, a cui Walt tenta di avvicinarsi fisicamente, ma che è destinato a sfuggirgli. Lo spettatore stesso non riesce a penetrare le loro psicologie. Il commento musicale, poi, suona vagamente ironico nel suo mood “messicano”.
Mala noche è un film dal passo leggero, il che non esclude il dramma, inteso sia come quel che avviene verso la fine, sia per l’amarezza destinata a permanere in Walt a causa della difficoltà di comunicazione e di far proprio l’oggetto del desiderio. Quanto a stile va notato che già qui, come nell'ultimo Paranoid park, Van Sant utilizzi mezzi espressivi diversi, in questo caso girando il tutto in 16mm ed in bianco e nero, ma con inaspettate riprese a colori ad un certo punto del film -proposte nell'universo diegetico proprio come riprese "amatoriali"- e sui titoli di coda.             Alessio Vacchi

Io c'ero. Festival ed eventi vari. DA SODOMA A HOLLYWOOD 23. FUNERAL PARADE OF ROSES


Giappone 1969. Di Toshio Matsumoto. Con Peter. Su dvd Eureka! (regione 2).

Che cosa scrivere di Funeral parade of roses? O se ne fa un'analisi seria, o si rischia la banalità. Perchè di fronte a film come questo, oggetti sperimentali e spiazzanti, che sembrano farsi beffa della "norma" di fare cinema, si rischia di essere impreparati a renderne conto ed esprimere un reale giudizio non mi pare facile. Col film si entra in sintonia molto lentamente, lo si comprende meglio man mano -con i suoi flashforward che si chiariscono come tali- e dopo la visione. Un ragazzo travestito, Eddie, che si esibisce in un locale, ha una relazione col padrone, che però ha anche a che fare con un'altra drag queen. Rivalità tra le due, ma fosse tutto lì: il protagonista ha delle visioni violente, si profila un incesto e scorrerà (di nuovo) sangue. Vita queer, realtà e finzione (Peter era davvero un travestito dell'ambiente queer giapponese, e Matsumoto monta nel film i suoi provini in cui gli chiede esplicitamente quanto di lui c'è nel personaggio), metacinema (“E’ underground!” dicono gli amici riuniti in una visione collettiva, “E’ il tuo primo film?” viene chiesto ad Eddie/Peter), frasi su schermo, scene d'amore dolci, violenza molto truce smorzata da un'ironia devastante –ed è qui che si trovano le cose più immediatamente apprezzabili del film, comprese le sequenze di movimenti velocizzati accompagnati da musica classica accelerata che Kubrick ha ripreso-. Piuttosto frammentato e visivamente pieno di idee, è uno di quei film che realmente merita una visione ulteriore. Difficile non boccheggiare -si prenda la sequenza della festa, ma è per isolare un caso-, ma da vedere.                                 Alessio Vacchi

Io c'ero. Festival ed eventi vari. DA SODOMA A HOLLYWOOD 23. LA CASA DEGLI AMORI PARTICOLARI


Giappone 1964. Di Yasuzo Masumura. Con Ayako Wakao. Su dvd Fantoma (regione 1).

Fa un certo effetto aggirarsi per il cinema Ambrosio “occupato” dal festival delle diversità sessuali quando si è eterosessuali. Così come fa effetto godersi delle proiezioni “d’essai” seduti nella sala grande, con poco pubblico. Una delle sezioni più interessanti del festival, “J-ender”, si apre con questo Manji, titolato in italiano in modo ammiccante. L'amore di una donna sposata verso una bellissima ragazza si scontra prima con il tentativo di capirci qualcosa del marito, poi con i segreti della ragazza, legata ad un uomo infido che propone alla "rivale" un patto per dividersi l'amata. Questa è solo una descrizione "strizzata" della vicenda, espressa su schermo in un’ora e mezza di forte emozionalità, parole e musica (quasi incessante), tanto che si arriva alla fine quasi esausti. Sopra le righe, comunque intenso e girato con gusto. Una storia, sebbene priva di atti violenti, in cui incombe la morte, spesso citata (“Allora uccidimi!”, “Dovresti uccidermi…” ecc.). Questo si lega ad una ritualità degli atti che la precedono (l'assunzione di medicine/sonniferi) e ad un aspetto sacrificale che è un pò meno convincente, nel quale Mitsuko è assimilata ad una dea alla quale il tutto risulta subordinato.
Il personaggio di quest'ultima passa dall’essere creatura amabile, a diabolica femme fatale, a parere pure lei in qualche modo vittima ed ancora la risoluzione della storia lascia esplicitamente la questione aperta; mentre l’altra donna, Sonoko, è in bilico tra il voler vivere un’emozione ed il lasciarsi prendere in giro, presa in una situazione poco chiara che man mano viene a perdere quella bellezza che sembrava poter avere. Parla dell’altra come di una sorella, ma al contempo afferma di adorarne il corpo -si mostra impaziente di vederlo nudo- e che potrebbe morire per lei. L'aspetto erotico è tenue, con corpi ripresi di sguincio o velati -ma la cosa funziona- e senza che ci siano neppure scene d'amore tra le due donne.                                Alessio Vacchi

domenica 13 aprile 2008

Comunicazioni di servizio. ELECTION DAYS



13-14 aprile. L'Italia è ad un'importante svolta ed è chiamata ad una decisione importante. Come eleggere per la terza volta un pregiudicato di 72 anni. Comunque la si pensi, se non si è parenti di uno dei due principali contendenti alla carica, per il nostro paesino ci sarebbe poco da ridere. Tuttavia per restare in tema propongo questo noto frammento del film Gli onorevoli, accompagnato dal tentativo di analisi del credo politico del principe fatto dalla compagna Franca Faldini:
"Politicamente, non era un impegnato, e anzi era quasi impossibile puntualizzare il suo pensiero. Non perchè protendesse al nostrano banderuolismo ma perchè in ogni corrente politica trovava una cosetta o due da salvare e il resto da gettare schifato nella pattumiera. Così aveva elucubrato un suo credo personale: non so come si materializzasse in sede elettorale, ma so per certo che in sede umana raggruppava in un unico polpettone un certo numero di elementi disparati: un pizzico di nostalgia molto romantica per la monarchia, un nonnulla di consenso per la rispettosità centrista di alcune istituzioni, una dose di ammirazione per l'intransigenza destrorsa a certe trasgressioni, una spolverata di propensione per l'idealismo alla Cristo di un determinato socialismo, un pugno di consenso per le promesse sinistrorse di un benessere generale, purchè scevro da un vero livellamento sociale perchè "le differenze di ceto tanto esisteranno sempre [...]".Era convinto, inoltre, che, magari a rotazione, una categoria un tantino superiore a un'altra sarebbe sempre esistita perchè l'ambizione di migliorare faceva parte della natura umana e sradicarla era un compito arduo e [...] come conseguenza, avrebbe smidollato l'uomo togliendogli il pungolo per mettercela tutta". (Franca Faldini, Quindici anni con Antonio De Curtis, in F.Faldini, Goffredo Fofi, Totò, L'Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2000).               Alessio Vacchi

Focus on. Chuck Norris: BREAKER! BREAKER!


Usa 1977. Di Don Hulette. Su dvd Mgm (regione 1).
Warning: il seguente pezzo contiene anticipazioni sulla trama e sul finale che possono compromettere la visione a chi non ha ancora visto il film ed intende farlo.

"Chuck Norris in Breaker! Breaker!”, recitano i titoli di testa: film(etto) della svolta per l’attore, lo vede per la prima volta protagonista, non più cattivo. Non sarà un caso che abbia il viso pulito, senza i baffoni del suo ruolo precedente. Chuck interpreta un camionista; il suo ingresso in scena è proprio al volante del suo mezzo e sulle note di un motivetto country. Cede il mezzo al suo fratello più giovane (pettinato in modo simile a lui), che però finisce nelle grinfie dei mentecatti di Texas City, cittadina in cui i poliziotti, alla guida di un anziano giudice, fanno il bello ed il cattivo tempo. Incarcerano gratuitamente il ragazzo, ma quando Chuck realizza la situazione interrompe una lezione in cui sta spiegando meditazione e terzo occhio ad un gruppetto e si muove alla volta della cittadina, stavolta alla guida di un furgone azzurro con una grande aquila sopra. Non ci mette molto a farsi individuare e ad avere a che fare fisicamente coi vari mentecatti di Texas City, a cominciare dai sadici agenti per proseguire con altra gentaglia senza qualifiche, rischiando pure di finire schiacciato nella pressa accartocciamacchine.
Le sole persone non ostili che Chuck incontra in città sono un tizio minorato mentale ed una cameriera, con la quale si sviluppa una storiella d’amore lampo un po’ ridicola: appena dopo essersi conosciuti, li vediamo già complici a camminare insieme, con un commento musicale morbido. Verso la fine l’intruso viene catturato ma, avvisati via c.b., una carica di camionisti sui loro mezzi parte alla carica in aiuto del collega ed una volta giunti, sfondano un po’ di costruzioni, in scene che ricordano Convoy, il film “on the road” di Sam Peckinpah dell’anno successivo. Dal momento in cui viene preso, non vediamo più il ragazzo fino a quando il fratello lo ritrova (ma grazie ad una spontanea soffiata, non per merito!) e lo libera. Anche questo film si chiude con una resa dei conti a due, tra Chuck e uno degli agenti. Ambientata all’interno di uno spazio recintato, vede come testimone non più un gattino ma un cavallo, i cui movimenti inquieti sono intervallati alla (breve) sfida tra i due. Il tutto è al ralenti, così chi vuole può apprezzare meglio i calci di Norris.
Nonostante qualche impennata drammatica, il film non si prende molto sul serio, ma forse non è un bene, perché non è neppure davvero ridanciano. C’è l’idea della cittadina di bifolchi, oasi pericolosa in cui è meglio non finire, ma a livello di sceneggiatura non c’è nulla di che ed il tutto risulta avere scarso mordente, facendosi dimenticare in fretta ed intrattenendo appena finchè dura. George Murdock, prolifico attore prevalentemente di tv, cerca di gigioneggiare nel ruolo del giudice. Disponibile all’estero su un dvd che lo propone sia nel formato corretto che in quello sbagliato (sic), ma se non si è fans non è il caso. Sui titoli balza agli occhi il montaggio accreditato a Steven Zaillian, più noto oggi come sceneggiatore di produzioni di serie A (es. Schindler’s list, Gangs of New York). Nella foto, Norris in una scena collaterale, in cui un imponente tizio lo sfida a braccio di ferro in una tavola calda.                                             Alessio Vacchi

Memorabilia. BIANCANEVE E I SETTE NANI



Marzo 1994. Mentre l'Italia si appresta a portare al governo per la prima volta Silvio Berlusconi, nelle sale si proietta una riedizione del notissimo film d'animazione Disney. La pratica di rieditare nei cinema vecchi film della casa, oggi pressochè scomparsa, era più frequente nei decenni prima, quando la programmazione delle sale era meno ferreamente centrata sui film di prima visione ed il pubblico ne poteva approfittare. In questo flano, si invitano i "grandi" ad andare a fare il proprio dovere civico, abbandonando i propri pargoli nei cinema all'intrattenimento offerto dai simpatici nanetti. La sala cinematografica diventa così qualcosa di simile ad una sala d'attesa per bambini, che sicuramente si saranno divertiti più dei genitori.                                           Alessio Vacchi

domenica 6 aprile 2008

The freak show. NIGHT OF THE DEMONS



Ci sono diversi tipi di film dell’orrore. Night Of The Demons di Kevin Tenney è quello che gli americani chiamano un “party-movie”, ovvero un prodotto progettato per essere visto in allegra compagnia (nota: chi scrive, l’ha visto da solo). La storia stessa parla di una festa (di Halloween, ovviamente) organizzata da un gruppo di ragazzi in una magione disabitata. Prevedibilmente, invece di divertirsi ed infilarsi nella biancheria delle compagne, saranno vittime delle malefiche presenze che infestano il posto.
Dalla trama semplice (ma con poco ritmo) ai cartooneschi titoli di testa animati ed agli innocui spaventi, il film sa di luna park, di fumetto. L’anno di grazia è il 1988 e la storia ne presenta tutti i sintomi: musica rock più o meno hard, accenni alla sottocultura dark, i classici personaggi a tema (minchioni festaioli inclusi) e via discorrendo. Pure la neonata MTV fa sentire la sua importanza nella cultura giovanile con la scena (pacchiana ma ciononostante cult) in cui l’Angela di Amelia Kinkade, posseduta dai demoni, balla davanti al camino sulle note di Stigmata Martyr (pezzaccio dei Bauhaus) sotto i flash di assurde luci stroboscopiche, prima di azzannare sul naso uno sventurato ragazzotto idiota ed arrapato. Ovviamente, non manca nemmeno la tipica manciata di nudo, divisione diretta in primis dalla gustosa Scream Queen formato mignon Linnea Quigley che, come da regola dei suoi ruoli (uno su tutti, la punk-girl Trash de Il Ritorno dei Morti Viventi), si spoglia senza pudore per la macchina da presa e la gioia di tutti noi. I gossip raccontano che un paio di anni dopo la nostra si sia fatta impalmare dal tecnico degli effetti speciali Steve Johnson (Videodrome, Nightmare 4), conosciuto sul set. Di suo, il reparto gomma & sciroppo se la cava dignitosamente: gli effetti rispondono all’appello, ma sono gravemente azzoppati dall’assenza di atmosfera e dall’eccessiva viscosità della storia. Il look dei posseduti ricorda da vicino quello dei loro analoghi in Demoni di Lamberto Bava.
Come ed anche più che nel precedente Witchboard, Tenney ricerca a tratti uno stile elaborato e dinamico, chiaramente debitore del Sam Raimi dei primi tempi, basso budget permettendo. Pur senza riuscire a salvare il film, alcune sue intuizioni sono una spanna sopra la media della fluviale covata del periodo. L’apprezzabile fotografia è del mestierante David Lewis, ogni tanto anche regista: giusto l’anno prima aveva co-diretto un oscuro thriller intitolato Dangerous Game assieme all’esordiente Stephen Hopkins, futuro autore di pellicole come Nightmare 5: Il Mito, Predator 2 e Spiriti Nelle Tenebre. Ampiamente disponibile in almeno due edizioni DVD sul suolo statunitense, la creatura di Tenney era sbarcata a suo tempo anche nel nostro paese (intitolata ovviamente La Notte Dei Demoni), quantomeno per il mercato home video: la VHS ogni tanto fa capolino nel mercato dell’usato, con prezzi salati adeguati alla sua rarità (ma non al suo valore). Vista la buona accoglienza da parte del pubblico, nel 1994 e nel 1997 sono stati realizzati ben due seguiti sempre con protagonista Amelia Kinkade nei panni della demoniaca Angela, questo prima che l’ex-ballerina jazz non scoprisse le sue doti nascoste e diventasse una telepate per animali. Alla faccia del bicarbonato di sodio!                                        Emiliano Ranzani

La youtubata. LEONE DI LERNIA



Ecco una apparizione televisiva d'antan del simpatico intrattenitore pugliese, ancora lontano dalla vera fama. Il brano scimmiotta Born to be alive di Patrick Hernandez e vi si trova un utilizzo pieno del dialetto che più avanti Leone ammorbidirà. Sul sito si trova anche la parte seguente, con un giovane Cecchetto che intervista Leone.                                                   Alessio Vacchi

Memorabilia. CARABINIERI SI NASCE



Nel 1981 il nostro cinema sforna I carabbinieri ed I carabbimatti, due farse appartenenti ad un filone definibile "pierinesco", di film comici che mettono in scena delle barzellette. Dopo Vigili e vigilesse dell'anno dopo, nelle vicinanze del Natale 1985 tornano i carabinieri con questo film diretto dal prolifico Mariano Laurenti. Nel frattempo si era avviata la serie Scuola di polizia di cui questo, come il più fortunato I pompieri, è una sorta di risposta italiana. Il pubblico aveva 7 giorni contati per ridere con questo film, prima che venisse smontato per far posto alle uscite "grosse" natalizie. Nonostante il variegato cast che comprende Sandro Ghiani (a fianco di Banfi in Fracchia la belva umana), Alessandro Benvenuti che fa un esaltato "rambizzato" (e Rambo 2 era proprio imminente nelle sale), Renzo Ozzano (il fantino francese di Febbre da cavallo) ed alcune belle attricette (per esempio Tinì Cansino nota per il Drive in di Antonio Ricci), il film è quel che è, anche se per coloro che hanno un debole verso la musica "bassa", la title track ha un suo perchè. Su imdb ha un voto medio terrificante.                                     Alessio Vacchi