domenica 27 aprile 2008

Io c'ero. Festival ed eventi vari. DA SODOMA A HOLLYWOOD 23. IL FAUT QUE JE L'AIME + WILD SIDE


Francia 1996. Con Valérie Mréjen.                
Francia/Belgio/UK 2004. Con Stéphanie Michelini. Su dvd Dolmen.


Doppio programma in una serata dedicata al regista francese Sébastien Lifshitz, di cui il festival ha proposto la retrospettiva. Il primo lavoro -il suo esordio- è un corto notevole, che per ammissione di Lifshitz risente, nell’utilizzo di inquadrature fisse, della sua formazione da fotografo. In scena, solo una ragazza seduta al tavolo. Sarà per qualche primo piano, per il suo volto non sereno o per il bianco e nero, ma viene in mente la Giovanna d’Arco di Bresson (non Besson, eh). Fuori campo, i dialoghi del passato, da cui si intende che lei ha abbandonato il suo uomo e conosciuto una ragazza. Da un lato, quindi, questa storia ricostruita verbalmente, dall’altro la protagonista, “passiva” -non si ode la sua voce- che pensa e soffre nel presente. Toccante.
Wild side è invece l'ultimo lungometraggio del regista -che ha annunciato di starne preparando un altro. "una sorta di road movie che conterrà della violenza". Aperto in modo curioso con Antony (...degli "& the Johnsons") che canta senza accompagnamento un suo brano contenente l'eloquente verso "Are you a boy or a girl?", il film è un po’ una tranche de vie di un singolare trio amoroso: due lui, più Stéphanie, cioè una lei che è un lui -e Lifshitz lo chiarisce subito eloquentemente-, nel momento in cui la madre di Stéphanie sta male e questa torna al paese natio, coi due amanti, per starle vicino. Alcune cose dette da Lifshitz aiutano a capire: il preferire le immagini alle parole, il voler lasciare qualcosa allo spettatore di modo che egli non sia “dominato” dal film. Infatti Wild side, nonostante il sesso, è segnato dalla misura: nella recitazione, nella chiusura delle scene. Ottima ed esemplificativa a riguardo la gesione del lutto finale. C’è un utilizzo moderato della musica, che solo ogni tanto si “apre” e non si parla molto. Il sesso appunto: sia nella dimensione marchettara, praticato da due dei tre, che nella dimensione privata e le due cose sono destinate a toccarsi nella scena col guardone, che chiede di vedere un loro rapporto.
Il senso che emerge può essere quello del vivere e dell’andare avanti, grazie alla forza dei legami e dei sentimenti. Questo nonostante la barriera linguistica che porta i protagonisti a comunicare in modo difficile (e comico, nella scena al ristorante). D’altronde il capirsi ed il riconoscersi entrano in gioco anche nel rapporto del trans con la madre e nel reincontro con una vecchia fiamma. L’emozionalità è molto trattenuta, ma qualcosa rimane. Non sempre utile, forse, il frequente confronto col passato, attraverso le scene d’infanzia “della” protagonista. Nell’incontro con Lifshitz, è emerso che la questione della lingua russa di uno dei personaggi non era prevista in sceneggiatura ma è nata sul set dall’attore, e che il suo personaggio avrebbe dovuto essere un soldato disertore -e un indizio nel film pare esserci, quando guarda un servizio con soldati in tv-.
                          Alessio Vacchi

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