domenica 15 marzo 2009

In sala. IL CURIOSO CASO DI BENJAMIN BUTTON


Warning: il seguente pezzo contiene anticipazioni sulla trama e sul finale che possono compromettere la visione a chi non conosce il film ed intende vederlo.

Chi scrive spesso è perplesso di fronte ai consensi cinematografici di massa, ma non è per partito preso che redige questo pezzo. E non ha letto il racconto di Fitzgerald. Premesso ciò: il film di cui si tratta prosegue la sua permanenza nelle nostre sale, veleggiando oltre i 10 milioni di euro. Si tratta di un successo un pò scontato, ma pure un pò immeritato.
Il curioso caso... pare uno di quei film che si portino appiccicati appresso l'etichetta di "bello" per alcune ragioni, tra cui l'essere un filmone americano di due ore e quaranta, con un attore famoso, con un plot da un lato bizzarro ma che dall'altro, raccontando l'esistenza di un protagonista, abbraccia quindi un ampio arco temporale, con una fotografia piuttosto raffinata. Si può definire "ben confezionato". Cosa c'entra David Fincher, il regista di Seven, Fight Club, Zodiac? Forse che non fosse il più adatto a dirigerlo? Ma lasciamo stare l'autorialità. Uno dei problemi maggiori è quanto poco riesca a toccare, ad emozionare lo spettatore nonostante quello che racconta. L'empatia con i personaggi, con i loro sentimenti, è alquanto debole. E questo, per un film di qualche ambizione, che parla di vita e di morte, è limitante, è un fallimento. Nemmeno una scena "importante", come quella del padre di Benjamin che finalmente gli si rivela, emerge. Non è che si vuole a tutti i costi un melodramma fiammeggiante, ma nemmeno (come chi scrive) passare la maggior parte del tempo a sforzarsi di concentrarsi ed emozionarsi, e riuscirci a fatica. Perchè succede questo? Anche perchè il film rimane irrigidito formalmente e non si riesce a dimenticare di stare vedendo, appunto, semplicemente un film. Difficile farlo, quando il passo del racconto è tenuto così, in maniera blanda e piattamente dolceamara: c'è un risveglino nella sequenza della battaglia in mare, ma rientra presto, e c'è poi ogni tot il divertente siparietto dell'uomo continuamente colpito da fulmini, tra i pochi scarti estrosi. E non aiuta di certo la musica di Desplat, così scontata nelle sue entrate da far quasi sorridere.
Il film è scritto da Eric Roth, come Forrest Gump, e segnalarlo ha una ragione: Benjamin Button pare voler ripetere un pò la ricetta di quel grande successo, proponendo la parabola di un protagonista maschile-Candido. Il problema è che il personaggio di Benjamin è interessante più che altro a un livello base, in quanto essere umano che vive un ciclo vitale invertito, ma sembra quasi perennemente un ebete. Brad Pitt si limita a stare in scena, col beneficio del dubbio dato dall'aver visto il film doppiato; e una scena come quella in cui rifiuta una notte con Cate Blanchett, non dispone in favore del personaggio. Ma la forrestgumpite è avvertibile anche nella filosofia spicciola che il film cerca di propinare tramite la voce narrante, che riflette il diario di Benjamin: il celebre "La vita è come una scatola di cioccolatini..." diventa qui un più volte ribadito "Non sai mai cosa c'è in serbo per te". E passi; però il discorsetto finale che accompagna il congedarsi di scena dei vari personaggi, "c'è chi fa questo, c'è chi fa quello, e c'è chi fa quell'altro", significa parlare ma non avere niente da dire. Non è l'unica arruffianata che pare pensata per far sentire sveglio lo spettatore, ma una vera ragion d'essere non l'ha: si veda il colibrì che ritorna sul finale, o la arzigogolata sequenza in cui Forrest-Benjamin si siede e attacca a narrare il concatenarsi -"se Tizio...se Caio..."- di tutti gli eventi che hanno portato all'incidente dell'amata Elizabeth.

Non è una catastrofe, è che la scarsezza di anima del film rischia di far essere più severi, e i pregi concreti non sono poi molti. Gli effetti di trucco, premiati con l'Oscar; una pregevole Tilda Swinton, nella parte della compagna di un funzionario, che ha una relazione con Benjamin. Allargando la lente, il film funziona un pò meglio nell'ultimo terzo all'incirca, perchè diventa, per quanto compresso, un pò melodramma sui generis: lei vuole restare con lui anche sapendo del loro scollamento temporale, accettando infine di accudirlo bambino, rincoglionito dall'Alzheimer, e cullandolo tra le braccia appena nato-a un passo dalla morte. Un ultimo appunto: che stress il doppiaggio. Qui sembra uno strato sopra le immagini, e rammenta ad uno spettatore ormai abituato alla lingua originale un motivo della sua abitudine. Nell'attesa di turarsi il naso per Gran Torino e Il nemico pubblico n.1.
Alessio Vacchi

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