domenica 25 ottobre 2009

A domanda rispondo. ENZO G. CASTELLARI


Si inaugura questa settimana una nuova rubrica, che spero ci/vi darà soddisfazioni. In A domanda rispondo cercheremo di intervistare personaggi del mondo dello spettacolo, prima di tutto italiano. Cominciamo con un nome grosso del nostro cinema popolare, personaggio negli ultimi anni già variamente interpellato, ma avendo questa intervista a disposizione, perchè non pubblicarla? Speriamo ci porti fortuna.
A.V.

Innanzitutto grazie per avermi concesso quest’intervista…Partiamo dall’inizio. Hai iniziato come aiuto regista in numerosi films diretti da tuo padre, Marino Girolami…
Ho iniziato bambino come attore, poi durante le vacanze scolastiche ho sempre frequentato i vari set di mio padre come comparsa, segretario dei segretari, cascatore, assistente...poi in seguito secondo aiuto, scenografo, primo aiuto, direttore di doppiaggio, maestro d'armi e montatore...non ultimo regista delle varie seconde unità.

Sei stato aiuto regista anche in diversi western. Cosa ti ricordi di film come Centomila dollari per Ringo, Django spara per primo, diretti entrambi da Alberto de Martino?
Mi sono divertito moltissimo ed ho continuato ad apprendere, De Martino é un ottimo regista, tecnicamente sapiente ed anche lui viene dal montaggio.

Pochi dollari per Django risulta essere stato diretto ufficialmente da Leon Klimovsky, ma lei ha partecipato molto attivamente alle riprese di questo film, tanto da risultare regista non accreditato…
Si, é vero : il film era cooprodotto da mio padre con la Spagna ed io ero l'aiuto regista...dopo il primo giorno di riprese a Madrid, riferisco la sera a mio padre, rimasto a Roma, che il "nostro" regista non era all'altezza... papà arriva subito e stabilisce che il signor Klimovsky firmerà il film ma lo dirigerò io !... e così dirigo il mio primo lungometraggio.

Sette Winchester per un massacro è stato il suo esordio ufficiale alla regia. Infatti è ancora firmato Edward G. Rowland…
Il distributore di Pochi dollari per Django viene a sapere che sono stato io a dirigerlo e chiede a mio padre di produrre il prossimo western con la mia regia. Lo scrivo con Tito Carpi, straordinario sceneggiatore e l'uomo migliore che abbia conosciuto nella mia vita. La lavorazione è regolare ed il successo di pubblico abbastanza soddisfacente.

E’ vero che il protagonista doveva inizialmente essere Robert Redford?
Si. Avevo conosciuto Redford a Los Angeles alla proiezione di The chase (La caccia). Abbiamo simpatizzato soprattutto perché lui ha frequentato l'Accademia di Belle Arti di Firenze ed io, diplomato a quella di Roma, abbiamo avuto anche dei professori in comune, come Guttuso e Gentilini e non abbiamo parlato di altro. Gli ho detto della mia carriera, della mia famiglia e del mio prossimo esordio alla regia..."Se il ruolo é bello mandami il copione..." Così feci. Gli piacque e sarebbe venuto ad un prezzo accessibile...ma passò per Roma Edd Byrness, molto noto per una serie televisiva, 77 Sunset Street, la prima serie americana arrivata in Italia...il distributore preferì lui, allora molto più noto di Redford!

Vado l’ammazzo e torno è il primo film firmato firmato Enzo G. Castellari. E’ un western parodistico, con molte citazioni dai film di Leone e da icone del genere come Django.
Mi sono divertito assai nel girare questo film, soprattutto per aver ottenuto la partecipazione di Gilbert Roland, attore messicano che io adoravo. Il tono scanzonato del film sorprende pubblico e critica ed anche i produttori; dopo i western truculenti questo mia interpretazione divertente è subito accettata come innovativa... cominciano ad arrivare le varie proposte, soprattutto dopo il successo straordinario di critica e di pubblico.

Cosa mi puoi dire del produttore Edmondo Amati, con il quale hai spesso lavorato?
Il crollo del Cinema Italiano è dovuto alla scomparsa dei "produttori", quelli veri, quelli che amavano il progetto e lo creavano con tutti i mezzi a loro disposizione... ed Amati era uno dei grandi, uno che s'impegnava in prima persona nel difendere il prodotto e dare al regista tutti i mezzi richiesti! Un uomo straordinario... tutti i films che facemmo insieme sono stati dei successi. Lui non voleva leggere le varie sceneggiature: voleva che io gli raccontassi il film scena per scena... io sono un ottimo story-teller e così lui aveva la sensazione esatta della mia visione del film e non l'ho mai deluso!

I tre che sconvolsero il west è un western ironico, con un trio di protagonisti formato da Frank Wolff, John Saxon e Antonio Sabato. Cosa ti ricordi di questi tre attori?
John Saxon, come Roland, era un attore che seguivo da anni e mi piaceva molto... anche perché gli somigliavo enormemente... si é rivelato subito un ottimo attore, una bellissima persona ed un grande amico. Con Frank avevo già lavorato nel film di Klimovsky ed era un attore istintivo formidabile, infaticabile e sempre presente e pronto ad ogni mia richiesta professionale. Sabato, dalla bellezza aggressiva e selvaggia, arrivò al successo internazionale con "Gran Prix" e, forse, era troppo giovane per gestire questa improvvisa notorietà.

Quella sporca storia nel west è ispirato all’Amleto di Shakespear. Come mai ha voluto adattare in chiave western questo grande classico shakespeariano?
L'idea fu di Sergio Corbucci, grande persona, grande regista, uomo dalla simpatia devastante. Non ebbe un grande successo in Italia soprattutto perché la distribuzione cambiò il titolo originale Johnny Hamlet in quello della "...sporca storia...", credo che se la gente avesse capito che era la versione western del capolavoro di Sheakespeare, anche solo per criticarlo, sarebbe andata a vederlo molto più numerosa... questa vecchia piaga che i distributori hanno avuto il potere di cambiare i titoli non l'ho mai accettata.

In Ammazzali tutti e torna solo ha collaborato alla sceneggiatura Joaquin Romero Marchent. Com’è stata la collaborazione?
Nella realtà non c'é stata: nelle coproduzioni con la Spagna doveva esserci sempre anche lo sceneggiatore spagnolo, per legge, ma non partecipava mai alla stesura del copione. Era più facile pagarlo per usare il suo nome e basta.

Vedendo il film ho trovato numerosi riferimenti al cinema e allo stile di Robert Aldrich e a Quella sporca dozzina… Avete tenuto in considerazione questo film in fase di scrittura?
Assolutamente sì! Con tutta l'ammirazione che avevo per Aldrich e tutti i suoi films. Sono sempre stato un suo grande fan.

Nel 1969 lasci momentaneamente il western per girare La battaglia d’Inghilterra, un film ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale, con Van Johnson e Fredrick Stafford protagonisti. Com’è stato lavorare con questi due attori americani?
Stafford era australiano, molto professionale, molto attento, persona educatissima e rispettosa... come attore un po' freddino... ma lo prendemmo perché aveva interpretato l'ultimo film di Hitchcock, Topaz e speravamo che aiutasse molto il cast... ma il film del maestro del brivido fu un flop... invece Van Johnson fu l'altro grande attore che adoravo sin da piccolo che sono riuscito ad avere in un mio film. Van é una persona divertentissima, correttissima, superprofessionista e meraviglioso attore.

Gli occhi freddi della paura è un thriller da camera molto teso. Fai uso di grandangoli, immagini frammentate, oniriche. Anche l’uso del montaggio è quasi sperimentale…
E' un film che amo molto ma purtroppo la produzione e la distribuzione fallirono prima che uscisse il film. Non è uscito mai nelle sale... l'ho visto dopo anni in televisione! E' l'unico film che ho girato in sequenza, in ordine cronologico, dalla prima scena all'ultima. L'ambiente della villa l'ho disegnato io, mentre scrivevo la sceneggiatura con Tito Carpi. L'ho poi costruita nei teatri di Cinecittà. L'unico ricordo triste é quello di Frank Wolff : il suo dramma familiare, quello che lo ha portato al suicidio é nato in questo film. La moglie ha tradotto il copione in inglese ma dopo i primi giorni di girato lei abbandona Frank per un altro uomo... il povero Wolff vive questo fatto in modo drammatico, giorno dopo giorno il suo umore peggiora dolorosamente... esattamente come il personaggio che interpreta... la sua sofferenza ed afflizione segue fedelmente il tormento del ruolo che sta recitando, è un dramma nel dramma... finito il film ne comincia subito un altro ed il primo giorno di lavorazione si toglie la vita.

Com’ è stato lavorare con Giovanna Ralli, Gianni Garko e Fernando Rey?
Giovanna meravigliosa donna, attrice istintiva ed intelligente e bellissima. Gianni un gran bravo ragazzo, un attore superdisciplinato, dalle doti naturali e con una grande carica di professionismo. Rey un signore in ogni aspetto : come uomo, come attore, come amico... che persona stupenda!

Come ti sei trovato a lavorare con Jack Palance sul set di Tedeum?
Mi avevano avvertito che Palance era un tipo molto difficile, molto introverso, chiuso e poco incline alla socializzazione... bugie! Jack era una persona straordinaria, colta ed amante dell'arte, rispettosissimo del prossimo ed anche timido. Ho stretto una grande amicizia con lui avvalorata dalla sua passione per l'arte che ci permetteva grandi discorsi sulla pittura, scultura ed architettura... e poi l'altra passione che ci legava é stata la boxe. Grande amico di Mohamed Alì ha dovuto rispondere a tutte le domande che gli facevo su questo mio grande mito!

In Ettore Lo Fusto hai avuto l’opportunità di dirigere Vittorio De Sica. E’ stato facile dirigerlo? Com’è stato il rapporto con il maestro del Neorealismo?
I Grandi Uomini si distinguono da tutti gli altri per la loro semplicità, professionalità, cultura, intelligenza, educazione e rispetto per gli altri, soprattutto dei più umili. Il primo giorno di lavorazione lui era sul mio set, malgrado avesse ottenuto il suo quinto Oscar. Non è andato a ritirarlo perché stava girando con me! Io dovevo dirigere un personaggio osannato in tutto il mondo, ammirato dai registi più grandi e riconosciuto come un artista completo...immagina con che soggezione ho affrontato la lavorazione ... ma ho trovato dal primo giorno di lavorazione un professionista a tutto tondo, rispettosissimo delle mie decisioni e pronto alla collaborazione in ogni momento. Ricordo indelebile : dopo il primo ciak, il papà del Neorealismo si gira verso di me con lo sguardo attento ed interessato a vedere se mi era piaciuta la sua interpretazione della scena! Sul set si é istaurata subito un'atmosfera di semplicità e tanto divertimento. Credo che in Ettore Lo Fusto io mi sia divertito più che in qualsiasi altro film.

Che ricordi hai di Orchidea De Santis, qui in uno dei primi ruoli importanti?
La ricordo come una bella ragazza, consapevole di essere attraente e puntuale nella sua interpretazione.

Com’è nata la figura del Vice Commissario Belli, poliziotto di ferro, che supera spesso i limiti imposti dalla legge e dalle istituzioni in La polizia incrimina la legge assolve?
Quando Amati mi offrì un film poliziesco accettai immediatamente ma richiesi che le mie ispirazioni dovevano essere prese da Getaway, Bullitt e French Connection... il mio film poliziesco doveva iniziare con un emozionante inseguimento (Bullitt), invece di metterlo nel finale come tutti i films... con la violenza di Getaway e la semplicità e naturalezza dei protagonisti di French Connection. Amati sposa subito queste mie esigenze e scatena me e Tito Carpi nell'invenzione della storia. Tito ed io prendiamo l'ispirazione nell'omicidio Calabresi. Chi poteva essere il protagonista ? Risposta semplice, il nostro giovane attore più bello e più conosciuto nel mondo è uno solo: Franco Nero ! Il successo di questo mio film, in tutto il mondo, determina l'inizio di quel genere che, con un termine che odio, viene chiamato "poliziottesco".

Questo film inaugura la felice collaborazione con Franco Nero. Cosa mi dici di questo attore che tornerà protagonista in molti altri tuoi film?
E' bravo, bello, parla un inglese perfetto, recita benissimo, qualità atletiche sorprendenti, ha un amore per il Cinema incredibile, è conosciuto nel mondo intero... che potrei volere di più in un protagonista? Il nostro sodalizio nasce il primo giorno di lavorazione e continua in eterno... ci piacciono gli stessi films, gli stessi registi, anche sugli attori andiamo d'accordo, abbiamo un rispetto reciproco ed un affetto fraterno che è cresciuto di giorno in giorno, di film in film, di anno in anno!

Franco Nero è l’interprete principale, l’anno successivo, de Il cittadino si ribella. Questo film ha un ottimo ritmo, ma l’originalità risiede soprattutto nella figura di Carlo Antonelli, un uomo comune costretto a farsi giustizia da sé. Rispecchia una generale disillusione che caratterizzava l’Italia di quegli anni?
E quelli di oggi no? Continuo a pensare che un remake del film sarebbe più attuale in questi tempi che allora. Ma Edmondo Amati purtroppo non c'é più... i produttori di oggi contano solo sui fondi governativi ed i contratti televisivi.

Com’è stato lavorare con Barbara Bach?
Una bellissima donna, una bella persona, una grande signora.

Keoma è un capolavoro del genere western. Probabilmente l’ultimo vero western italiano. Il protagonista assume caratteristiche messianiche, viene sottoposto ad una crocifissione...
Avevo già usato la crocifissione in Johnny Hamlet e la userò poi in Jonathan degli orsi.

Lo stile del film è quasi fumettistico. E’ stata una sua scelta stilistica o era già previsto in sceneggiatura, scritta con Luigi Montefiori?
Non trovo assolutamente che sia fumettistico. Non é certo stato un mio target. E' un film molto cupo, tenebroso, barocco, con grandi significati allegorici che ho "rubato" a Bergman. Il grande amore paterno mi ha spinto nel rappresentarlo con grande passione... ancora mi commuovo quando vedo la scena della morte del padre... Montefiori scrisse il soggetto, la prima sceneggiatura scritta da Roli l'ho stracciata ed ho girato il film (quello che amo di più) inventando scena per scena, giorno per giorno, con la collaborazione e solidarietà di tutti gli attori e soprattutto del produttore che me l'ha permesso...

Il film ha un grande cast. Che ricordi hai di icone western come William Berger, Woody Strode e Donald O’Brian?
Con Berger avevo già lavorato in una seconda unità di un film western diretto da Mario Maffei... ero aiuto di De Martino e lo stesso produttore, visto che giravamo di notte, mi offrì di non dormire di giorno e finire questo suo altro film interrotto. Trovai in Billy un attore supermodesto, bravissimo e tranquillo come pochi. E' stato un piacere immenso averlo in Keoma, ha dato molta classe al personaggio del padre. Woody ha realizzato un altro sogno : quello di lavorare con un attore che ho sempre tanto ammirato. Durante la lavorazione non lasciava mai il set e mi osservava mentre dirigevo...solo all'ultimo giorno mi confessa, assai ammirato, che vedermi lavorare gli ricordavo tanto John Ford! Questa meravigliosa affermazione è stata il mio Oscar! Parlando di Donald O'Brian lo ricordo come un gran professionista, serissimo e sempre disponibile. Un viso duro in un animo nobile. Educatissimo e molto rispettoso. Un gran piacere lavorare con lui. Mi addolorò molto la notizia di un suo incidente automobilistico dal quale è uscito con molte menomazioni.

Con Il grande racket torni al poliziesco. Trovo che il film abbia una visione del mondo senza speranza, molto nichilista. Anche il confine tra bene e male è molto labile…
Anche questo mio film potrebbe ripresentarsi oggi nelle sale ed apparire come un film appena girato. Il confine tra bene e male, ai nostri giorni, è ancora più nebuloso...e la visione che ho del nostro mondo lascia poco alla speranza.

Cipolla Colt è un western ironico, molto atipico. Ci sono alcuni elementi bizzarri, come il cavallo parlante o le cipolle usate come armi. Come giudica la sceneggiatura di Sergio Donati e Vincenzoni?
Ottima... e mi ha permesso di inventare tanti cambi e tantissime gags... questa sceneggiatura mi ha regalato la possibilità di "gozzovigliare" nei slapstick , nelle tante scene surreali e nella sfrenata voglia di realizzare tutte quelle situazioni che ho sempre amato nel film-cult Hellzapoppin', credo sia il film che ho visto più volte in assoluto. Ho fatto una proiezione per i miei studenti dell'Università di Alicante ed ha avuto un successo strepitoso. Anch'io mi sono divertito molto, erano anni che non lo vedevo. 100 minuti di totale entertaiment ! E poi nel film c'é un altro mio mito Sterling Hayden, regalo che mi sono fatto nel chiederlo al produttore Carlo Ponti con enorme insistenza...fino a che mi ha concesso di chiamarlo. Fantastico ! Quando me lo sono trovato sul mio set quasi non ci credevo. Che grande fortuna fare questa professione e goderne in maniera totale. Viva il cinema!

Intervista di Edoardo Favaron, autunno 2008. Prima parte. Foto da http://en.wikipedia.org/wiki/Enzo_G._Castellari

Io c'ero. Festival ed eventi vari. CINEMA. FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA. 15-23/10/2009. UNA QUESTIONE D'ONORE


Italia 1966.

Retrospettiva su Luigi Zampa quest'anno a Roma. Figura di regista che, pur avendo firmato titoli molto noti -bastino Il vigile e Il medico della mutua-, non è quasi mai citato. Un pò più professional e non all'altezza di altri come Risi probabilmente, interessato soprattutto a mettere in scena correttamente copioni ("Un regista [...] deve raccontare e basta, e tanto più sarà bravo quanto più sarà riuscito a far credere nei personaggi, a commuovere o divertire con loro"*), ma come minimo Vivere in pace, con Aldo Fabrizi, Ave Ninchi e dei soldati americani da nascondere, e Anni difficili, schietto e amaro spettacolo popolare che "ricordava agli italiani che erano stati fascisti" (Fofi), sono bei film. Una questione d'onore non è un bel film, però è una bizzarria che aguzza l'attenzione. Perchè già fare interpretare a Tognazzi, cremonese, un sardo, che si sforza di avere quell'accento e di parlottare quella lingua, è una scelta singolare, che strappa sorrisi soprattutto all'inizio: lui che impettito cavalca il suo ciuco è un'immagine che funziona. Ma Zampa e i suoi sceneggiatori non sono scemi: che Tognazzi non sia credibile è voluto, palese, il gioco è scoperto. Si tratta di una commedia, quasi di una farsa. Il far vestire all'attore panni incongrui funziona come una leva per evidenziare l'assurdità, la pesantezza delle situazioni in viene a trovarsi il personaggio, meglio ancora il livello retrogrado, anacronistico della Sardegna profonda, coi suoi rigidi schemi comportamentali e di controllo sociale. E il film parte in quarta sin dalle didascalie iniziali a sfottere questa "sardegnità", presentando il territorio come qualcosa di peggiore del far west.
Tognazzi è un ometto che alcuni fratelli pastori vogliono costringere a sposarsi con la loro brutta sorella, che però dopo anni di carcere si rivela mutata in una bellezza (ma la cosa non funziona, perchè Nicoletta Machiavelli non appare brutta nemmeno nella fotografia in cui si finge lo sia). Nel frattempo, continua una faida di lunga data tra due famiglie, riaccesa da un arzillo vecchietto a cui pare la cosa più sensata da compiere. Tognazzi ci finisce in mezzo perchè Bernard Blier (francese... dato per sardo) lo va a trovare al nord, dove è fuggito per una falsa accusa, per chiedergli di uccidere di nascosto un'ultima persona che metterebbe fine alla faida. Lui non compie il delitto, passa la notte con la moglie: che rimane incinta. Ma come sottrarsi all'accusa di essere cornuto, dato che ufficialmente non c'era? E' l'ultima parte del film soprattutto quella che giustifica il titolo: il protagonista si trova schiacciato dalla situazione, recita anche un litigio con la moglie per far sentire il tutto ai paesani. Il marchio disonorevole pare irremovibile, al punto che, in una penultima sequenza seria ma poco convincente visto il tono del resto, che con un colpo di coda cerca di alzare la drammaticità di quella che resta una commediola, sbrocca aderendo lui stesso all'apparenza, che sembra essere l'unica cosa che conti. E' simpatica la presenza frequente dei carabinieri, sguinzagliati per tenere d'occhio la situazione della faida, sullo sfondo delle scene, come spettatori che vigilano tranquillamente, per dovere. La battuta più divertente, rivolta da Tognazzi alla moglie: "Che ci mettiamo a discutere se è meglio essere bagassa o cornuto?".

Alessio Vacchi

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Gianluigi Rondi, dal Catalogo del festival.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. CINEMA. FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA. TRA LE NUVOLE


Tit. or. Up in the Air. Usa 2009. In sala dal 15 gennaio 2010.

Sarà una copertura o vero amore, la storia di George Clooney con la miracolata Elisabetta Canalis? Non ci frega, tantopiù che chi scrive non ha visto il film alla presenza dei due. Quello che ci interessa è che Clooney sia un attore pregevole, che fa piacere vedere sullo schermo. In Up in the Air veste il suo personaggio con disinvoltura, simpatia, agio; non fa chissà che, ma talora riesce a far ridere tutta la sala soltanto con la mimica facciale. Attore e personaggio paiono fondersi, mantenendo intatta l'attorialità di Clooney ma anche credibile il carattere interpretato. Sarà una banalità, ma viene in mente Cary Grant. Jason Reitman, nome emergente della commedia, è un regista furbo: Thank You for Smoking, accomunabile a Tra le nuvole per la presenza di un protagonista maschile che svolge un lavoro sgradevole, era un film provocatorio ma un pò inconcludente, Juno, con una grande Ellen Page (e a questo punto è il caso di dire che i protagonisti Reitman se li sceglie bene), era un film vivace e apparentemente anticonformista ma ruffiano e familista. Fermi tutti: non che sia per forza un male, il familismo. Ma andiamo con ordine.
Clooney è un licenziatore di professione, pagato da capi poco coraggiosi per comunicare ai dipendenti il benservito, con charme, cercando di non deprimerli e di far balenar loro la possibilità di un futuro. Amante dei viaggi in aereo con cui si sposta da uno stato americano all'altro per lavoro, intreccia una relazione molto occasionale con un'altra accanita viaggiatrice. Ci sono altre donne, nel film: una giovane collega, che con l'idea di licenziare tramite collegamento web rischia di fargli perdere il posto, e che lui si trascinerà qua e là per iniziarla al mestiere. Anna Kendrick interpreta simpaticamente questa figura apparentemente sicura e tutta d'un pezzo, destinata ad ammorbidirsi ma, forse per fortuna, non ad avere una storia col protagonista. Poi c'è una delle sorelle, prossima a sposarsi, per il cui conto lui porta in giro una sagoma di cartone raffigurante lei ed il futuro marito, per fotografarla su sfondi diversi, fornendo così loro un surrogato di viaggi che non hanno fatto, che non possono fare, al contrario di lui.
Reitman è astuto, si diceva, anche perchè il film tocca il tema assolutamente attuale della crisi e del lavoro che può interrompersi da un momento all'altro, soffermandosi più volte sulle reazioni perlopiù incredule dei licenziati, fino ad arrivare a un picco di drammaticità nella scena dell'inumano licenziamento che si compie da due stanze adiacenti. Il film, dopo una prima parte più sorridente e vivace (ma il dialogo solo a tratti si accende in stile slapstick), ne fa seguire una seconda più seria, dai sorrisi più malinconici, coincidente con gli ultimi fuochi lavorativi del protagonista e la presa di coscienza della sua solitudine. Il personaggio vorrebbe mettere la testa a posto, ma non riesce, forse non ha costruito abbastanza per poterlo fare. La vita è meglio se vissuta in compagnia, il contatto umano è importante. Tutto giusto ma il film calca troppo la mano, come non si fidasse dell'intelligenza spettatoriale, nel comunicare alla fine il messaggio familista e che una vita vissuta come quellalà, non paga: gli ex licenziati che ricordano come hanno tirato avanti grazie alla loro famiglia sono pleonastici.
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. CINEMA. FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA. BUNNY & THE BULL


UK 2009. Di Paul King. Con Simon Farnaby.

Stephen è chiuso nel suo appartamento, prigioniero di una vita solitaria e patologicamente metodica: mangia sempre lo stesso cibo, ordina i pezzi della sua vita in numerosissime scatole. Inoltre, ha delle allucinazioni, in cui vede tra gli altri il suo amico Bunny. Ma cosa è successo qualche anno prima? Vediamo Bunny, estroverso, disordinato, privo di inibizioni, libero e godereccio trascinare l'altro, timido, mite e che ancora pensa ad una sua fiamma, in un viaggio finalizzato anche a farlo concludere con qualcuna. A loro si unisce una ragazza conosciuta in un fast food di pesce, Captain Crab. Tra una disavventura e l'altra, inutile dire che l'unico a darsi da fare con le donne, compresa lei, è Bunny, a scapito di Stephen. Bunny qua e là è personaggio davvero pesante, antipatico, e i due caratteri sembrano doversi scontrare apertamente. Avere un amico così sarebbe vivificante, ma farebbe pure venire delle crisi. Ma per l'altro, pare essere in ogni caso il suo migliore compagno. Il trio va a trovare il fratello matador della ragazza, e qui il destino dei due protagonisti incombe, con un colpo di scena. Bunny fa e disfa tutto nella vita dell'amico, e alla fine ha anche la funzione di farlo uscire dal suo isolamento (in un finale comprendente uno dei controcampi più scontati che si ricordino). Ma attenzione: quel che si legge da più parti, che il film sia "un road movie ambientato tutto in un appartamento", è sviante se non falso: come si sarà capito, si tratta di flashbacks.
Per questo film inserito nella sezione "L'altro cinema-Extra", Michel Gondry è il riferimento più limpido e immediato. L'influenza del regista francese si riscontra nelle scenografie, nel gusto per il colore e le trovate, per la presenza di più piani, tra reale, surreale, reale ma animato con stili differenti. Diciamo che dietro c'è, da Gondry, qualcosa di più preciso ancora: il co-protagonista, interpretato da Edward Hogg, ricorda il Gael Garcia Bernal de L'arte del sogno, e tutta la sua dinamica di ragazzo timido che non riesce a realizzarsi sentimentalmente con chi desidera, non può non far pensare a quel film. Che era meglio: almeno là il protagonista era un sognatore visionario, e c'era Charlotte Gainsbourg invece che una irritante ragazza spagnola. Qui invece, il tutto non gira bene, e chi scrive è arrivato a 2/3 di visione un pò scocciato. Troppo artificioso, senza che si crei magia, e un pò scontato (scopata ardente stile film compresa), difetti che hanno come conseguenza, purtroppo, la noia. Per fortuna il personaggio di Bunny, ha delle uscite divertenti, e non è niente male come follia anche l'ubriacone russo che vuole farsi il finto orso che i due protagonisti, ad un certo punto, si portano in giro ("Hai delle belle spalle... Dopo faremo sesso"). Ecco, alla fine Bunny & the Bull si salvicchia più per alcune scene divertenti che non per altro, il che non è il massimo. Peccato perchè i titoli di testa ostentatamente creativi, scritti sulle superfici più svariate, da indumenti a scatole, potevano predisporre bene. A quanto si legge in giro, comunque, qualcuno ha gradito.
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. CINEMA. FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA. THE WARRIOR AND THE WOLF


Tit. or. Lang zai ji. Cina 2009. Di Zhuangzhuang Tian. Con Jô Odagiri.

Lu viene assoldato dal generale Zhang per combattere tra le sue fila, contro le tribù che premono ad ovest della Cina. In mezzo alla violenza, tra i due nasce un rapporto di rispetto ed amicizia. Una volta a capo delle truppe, Lu si trova costretto a rifugiarsi, causa neve, in un villaggio abitato dagli Harran, tribù che vive sottoterra e instaura un rapporto passionale con una donna (Maggie Q) che fa capolino nella sua tenda. C'è una maledizione che grava, in questo posto: chi trasgredisce le regole si muterà in lupo. Nella vita segnata dal mestiere della violenza del protagonista, il sentimento, che sia quello per il suo generale, quello dolce per il suo cane o quello rude per la donna, è comunque una parentesi, e il lupo è l'animale, non a caso temuto, che rappresenta il suo destino.
E' vedendo film come questo in fuori concorso che si ha l'impressione che il festival di Roma proietti, in alcune sezioni, selezionando grossolanamente, a seconda di quel che c'è a disposizione. La gente in sala, già poco numerosa, se ne esce, già durante la prima parte (il che invero è un pò eccessivo, evidentemente anche ai festival ci sono spettatori che non sanno cosa stanno per vedere). "Non è un film da festival" si sente dire: ed è abbastanza vero, non tanto perchè sia un "kolossal", un film "di genere", ma perchè le qualità in The Warrior and the Wolf si cercano col lanternino. Bisogna dare atto al film di non essere banale strutturalmente: ci si mette un pò a orientarsi nella narrazione oscillante continuamente tra presente e passato della prima parte, e sono svariate, forse eccessive, le ellissi affidate a didascalie riassuntive, che dicono del passare del tempo e dei movimenti dell'esercito. Dopo il rapporto tra Lu e il suo generale, quel che interessa al film è soprattutto il rapporto tra Lu e la donna, inizialmente basato solo sul sesso e sulla sottomissione di lei, poi sfociante in legame inevitabile, oltre che nascosto all'esterno, tutto svolgentesi, tra un amplesso e l'altro, al riparo. Ecco: lo spettatore si sorbisce ripetutamente gli accoppiamenti dei due, in scene che fanno sbuffare, in cui non si vede praticamente nulla se non pelli e schiene sudate, il che può essere una scelta produttiva o legata alla disponibilità dell'attrice, ma altrimenti ci sarebbe stata maggior vivezza.
Il cercare di far parlare le immagini, riducendo il dialogo ad un grado basico (il maggior numero di parole è scambiato tra Lu e la donna, e non da subito), non è certo un male in un film che dovrebbe possedere dell'epicità, in cui si combatte. Ma le scene di battaglia sono brevi e girate alla buona, con piani stretti e veloci; l'insieme è opaco, poco interessante, inevitabilmente noioso e alla fine pure inconcludente, perchè l'esca lanciata nelle parole del personaggio di Maggie Q, riguardo la metamorfosi in lupo, non si concretizza in nulla di che, perlomeno nulla di chiaro o di soddisfacente. Si salvano un pò la tempesta di sabbia e la breve lotta coi lupi, troppo digitali, del protagonista. Ma nel complesso The Warrior and the Wolf è mediocre e indisponente.
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. CINEMA. FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA. A SERIOUS MAN


Usa 2009. In sala dal 4 dicembre.

Aperto da un prologo "iettatorio" in lingua ebraica, col sorriso sulle labbra, venato di horror (chi scrive ha pensato ai Vurdalak, messi in scena nei 60s da Mario Bava), A Serious Man, ultimo film dei Coen e anteprima tra le più attese a Roma, si incentra su un mite professore di origine, appunto, ebraica che si trova a far fronte a una serie di incidenti: uno studente mediocre gli fa pressioni e ricatti per farsi promuovere, la moglie di punto in bianco gli comunica che vuole divorziare perchè ama un altro -un grosso signore ebreo dai modi calmi e melliflui-, il fratello è un mattoide che rischia l'arresto per motivi vari. In più, il vicino, americano tutto d'un pezzo, lo inquieta, i due figli sono poco gestibili tra ossessione per il look di lei e le canne di lui, e c'è una vicina di casa, milf da competizione, che lo attrae.
Il film prosegue, meglio, la linea coeniana che stava già tutta, per rimanere al penultimo film e all'ultima commedia, in Burn After Reading. Pur non essendo questo un film corale, perchè sta sul protagonista e gli altri sono al loro posto, abbiamo una galleria di casi umani, i personaggi sopra le righe che ci si possono aspettare in un film dei fratelli, anche se sorvegliati dall'attenta loro regia. A partire da lui (un bravo e simpatico Michael Stuhlbarg, dalla postura sempre più curva col passare degli eventi) e dagli altri accennati sopra, per proseguire coi rabbini consultati per cercare di cavare un senso a quanto capita, e le cui entrate in scena suddividono fittiziamente il film in parti. L'esistenza è costellata di sfighe ed eventi inaspettati, ma i Coen nel raccontarcelo non cadono nella paradossalità fine a sè stessa (se non nella sequenza del sogno col fratello, ma è appunto un sogno). E' quindi umano cercare un perchè, ma la morale è esplicitata già all'inizio: "Accogli con semplicità tutto ciò che ti succede". Conviene accettare gli eventi di cui siamo in balia, cercare risposte non porta a niente: qui i rabbini non servono a niente in tal senso, anzi quel che esce loro di bocca è straniante o inutile quanto quel che si sente da altri, quanto la telefonata surreale di un anonimo venditore di collane di cd. La visione del mondo che ne esce è espressa in toni di commedia, dolceamari, ma a guardar sotto è triste e nera, come se la vita fosse un incubo di cui siamo prigionieri.
Ci sono alcuni elementi respingenti per il pubblico, che i Coen evidentemente si possono concedere. Imbevendo la vicenda di ebraicità, facendo riferimento alla loro formazione e prendendone in giro la religione (che non è loro obiettivo primario, ma checchè ne dicano, vista la filosofia sottesa e i cretinotti messi in scena, non ne può uscir molto bene), utilizzano dei termini ebraici, sicuramente non sempre comprensibili per chi non abbia dimestichezza con quella cultura, anche se certe cose si intuiscono (il bar mitzvah) o son fatte capire (il gett). L'altro elemento è il finale, perchè tutta la fetta di pubblico che si è incazzata con quello di Non è un paese per vecchi (non a ragione), qui avrà di che ululare, con una chiusura tronca, sospesa, persino moralistica, ma cercare la rotondità in una commedia simile, dei Coen, non serve e sono ultimi minuti di notevole efficacia cinematografica. Ecco, non si tratta di un film magnifico, ma è Cinema, con senso della scrittura, dell'umorismo, dell'immagine e anche del suono: i battiti durante la scena della canna con la vicina, i Jefferson Airplane e la loro strafamosa Somebody to love che accompagnano più momenti, compreso uno dei più divertenti, protagonista un rabbino "moderno".
A.V.

lunedì 12 ottobre 2009

Io c'ero. Festival ed eventi vari. LE GIORNATE DEL CINEMA MUTO (XXVIII EDIZIONE), Pordenone, 3-10/10


Tra una masnada di spettatori stranieri e una parte più piccola di giovani, nel moderno teatro Verdi si è avuta occasione di vedere cose che, altrove, chissà quando. Al solito, una stringata ricognizione delle visioni. Abel Gance-The Charm of Dynamite, documentario di Kevin Brownlow del 1968, si sofferma solo su alcuni film, di cui propone sequenze dalla velocità sospetta, ma permette di vedere e sentire il grande regista francese, che tra le altre cose rimembra il dolore del primo conflitto mondiale confluito in J'accuse.
Personale scoperta di questi giorni di proiezione è il russo Nicolas Rimsky, attore al soldo della Albatros di cui si sono visti diversi film. In L'hereuse mort, storia di un modesto commediografo che, una volta creduto morto, viene portato in palmo di mano, ma morto non è, si sdoppia nella parte del protagonista e del fratello, di cui prenderà l'identità. Schietto e pungente nelle osservazioni sulle rivalutazioni postmortem, il film vede in Rimsky un grande attore comico (attore, non maschera), con una capacità mimica sottile, che conquista per bravura. Di tre anni dopo la commedia Le chaffeur de chez Maxim's, più lunga e dalla trama un pò più elaborata, che pur durando qualche metro di troppo, fortunatamente non si risolve in una stantia commedia sofisticata ma offre buon spazio all'attore, con situazioni comiche notevoli, ad esempio quando egli fa credere ci sia il colera nella sua magione, o la sequenza che lo vede ubriaco finire di casa in casa.
Der furst von Pappenheim vede invece come protagonista Curt Bois, definito "l'Harold Lloyd tedesco", in una commedia ambientata nel mondo della moda, piacevole, non esplosiva ma in cui l'attore si ritaglia i suoi momenti travestendosi da donna. Per la sezione inaugurata quest'anno "Il canone rivisitato", che vuole riproporre su grande schermo classici del muto probabilmente non visti dalle generazioni recenti, Gunnar Hedes Saga di uno dei più famosi cineasti nordici del muto, Mauritz Stiller, presenta una storia semplice ma dotata di intensità drammatica; sebbene un poco scontato verso la fine, colpisce il piglio lirico di sequenze come l'incidente del protagonista, trascinato per minuti sulla neve da una renna. Peccato per l'incompletezza della copia esistente.
La serie di proiezioni "Sherlock e gli altri", piuttosto azzeccata, ha permesso di vedere una serie di episodi di serial o film con protagonisti detective, seri o meno. Walter the sleuth col comico inglese, non originale ma simpatico, Walter Ford; un episodio della serie animata Bonzo, con protagonista un abile cane alle prese con una gang di incappucciati il cui segnale di riconoscimento va visto per essere creduto; The mystery of dr. Fu-Manchu, col perfido ed astutissimo personaggio cinese; La mano accusatrice, statico film evidentemente italiano per scenografie ed enfasi recitativa; Unos banké e fuxe, farsa ceca (sic), inizialmente divertente poi un pò troppo esagitata, che vede tra i personaggi un sedicente "Sherlock Holmes II"; The last adventure of Sherlock Holmes con Eille Norwood, che colpisce per l'atmosfera seria (e infatti il detective vi trova la morte); dagli archivi Fox, due documenti sul papà di Holmes, Conan Doyle, ovvero un brevissimo filmato con la famiglia in vacanza e un'intervista all'autore (una delle rare proiezioni sonore del festival!), in cui molto compostamente parla della genesi di Holmes e del personale, serio interesse per lo spiritualismo. Dal British Silent Film Festival, The Wheels of Chance è un piccolo, lieve, un pò ozioso film on the road in bicicletta, con protagonista un goffo garzone, che nelle didascalie parla in una specie di slang, il quale cerca di conquistare una ragazza, inseguita da un tizio che la vuole concupire (curiosamente anche qui, per darsi un tono, ad un certo punto il protagonista prende come esempio Sherlock Holmes). Mentre The Four Just Men è una divertente, e non priva di suspance, trasposizione dell'omonimo romanzo di Edgar Wallace, con protagonisti quattro determinati uomini che si sentono portatori di giustizia terrena e minacciano un industriale sfruttatore. Nella sezione "Riscoperte" si è potuto vedere il bel film di Dreyer Gli stigmatizzati, in una versione ricostruita (sospetto, nella prima parte, il gran numero di didascalie), storia di ebrei in Russia, la cui sequenza del pogrom è ancora oggi efficace.
Ma è la sezione "Cinema delle origini" quella in cui si vedono le cose più curiose e finanche deliranti. I purtroppo pochi frammenti del pioniere del cinema Italo Pacchioni, tra tentativi di gag e documentazioni come quella sui funerali di Giuseppe Verdi -seguiti da una surreale ricostruzione con sagome. The dream of a rarebit fiend vede il protagonista ingozzarsi di cibo per poi fare sogni "pesanti"; The Teddy bears ancora più lisergico, tra attori vestiti da orsi e un momento attrazionale che vede una serie di orsetti esibirsi in numeri circensi estremi (peccato la copia monca, rispetto alla trama sul catalogo); un episodio del serial, che avrebbe "fatto impazzire i surrealisti", The Perils of Pauline, che però visto oggi, con buona pace della sua eroina, è insipidino; The Sinking of Lusitania è un serio cortometraggio animato di propaganda (1918) che ricostruisce con indignazione l'attacco tedesco alla nave civile americana; "Niagara in winter 1909 offre spettacolari e rare riprese delle cascate omonime ghiacciate; si ride con le incomplete comiche Les débuts d'un chaffeur con Andrée Deed autista che travolge ogni cosa, The short-sighted cyclist, impressionante per la spericolatezza fisica del protagonista che, in bici, va a sbattere contro ogni cosa, cavalli compresi e Her first cake, con una donna che confeziona una torta inscalfibile. Down on the Farm, sorta di comica a rilento, sembra mettere in scena l'atavico desiderio maschile in un inseguimento "a ostacoli" di alcuni uomini verso un gruppo di donne, mentre Le tour du mond d'un policier è un altro "inseguimento" che si svolge in giro per il mondo (si fa per dire), in pittoreschi quadri che vedono la collaborazione dell'esimio effettista Segundo de Chomon.
Alessio Vacchi

domenica 4 ottobre 2009

Focus on. Chuck Norris: DELTA FORCE


Usa 1986. Su dvd Mgm.
Warning: il seguente pezzo contiene anticipazioni sulla trama e sul finale che possono compromettere la visione a chi non conosce il film ed intende vederlo.

Per questo action movie patriottico (si noti, ma è solo l'esempio più visivamente esplicito, il primo piano delle mostrine con la bandiera Usa, che i soldati si applicano addosso), lunghetto (due ore e qualcosa), che regge quasi la sua durata ma non evita un pò di ridicolo, Menahem Golam, uno dei capoccia della casa produttrice Cannon, si prende la briga anche della regia. Un volo da Atene a Roma viene dirottato da terroristi libanesi, propugnatori di una "new world revolution", che costringono a fare rotta su Beirut e traferiscono gli ostaggi in città. Ma c'è un team che si prepara ad intervenire, con un capitano quale Norris ed un colonello quale Lee Marvin.
Spira aria di Airport quando vediamo socializzare alcuni dei passeggeri e brevi scene con le coppie, anche se la caratterizzazione dei viaggiatori e la loro interazione rimane una coloritura. Tra loro comunque, attori non carneadi, un pò come avveniva in quella serie: George Kennedy, Martin Balsam, Shelley Winters. Il film cerca accenti drammatici quando gli antipatici terroristi (un pò umanizzati solo in alcuni momenti: la bambina che disobbedisce in aereo, il "non ce l'abbiamo con voi" detto in carcere) fanno chiamare e separare in prima classe i passeggeri ebrei, tra cui chiaramente degli ex deportati, come in un ripetersi dell'olocausto (e uno degli esaltati terroristi afferma che all'epoca di ebrei ne han fatti fuori troppo pochi). Sebbene il nostro Chuck apra il film con una sequenza in cui salva un soldato in pericolo di vita, per buona parte del film sembra in sordina, non ha molte scene nè (beh...) molte battute. Un pò perchè il film sta soprattutto dentro l'aereo dirottato, un pò perchè il suo personaggio fa parte di una squadra, squadra che deve ancora entrare effettivamente in azione, un pò perchè c'è un colonnello sopra di lui, Lee Marvin. Una delle sequenze più divertenti vede Norris che tenta di mangiare a casa ma non riesce, scanalando in tv, a evitare di sentire la notizia del dirottamento. Ma nell'ultima parte del film il suo personaggio si riscatta completamente, regalando dei "grandi" momenti superomistici accompagnati da espressioni più impassibili che mai, dallo smitragliare sopra una radiotrasmittente, in risposta ai nemici dall'altro lato, alle prodezze in motocicletta: il capitano McCoy porta avanti azioni parallele al resto della squadra, montando sul suo mezzo dei missiletti distruttivi che spara con disinvoltura. Fino alla inevitabile lotta da solo contro il capo dirottatore, quando lo larda di mazzate per poi finirlo a distanza (deja vu: fa pressochè lo stesso in Missing in Action) con uno degli utili missiletti e salire rocambolescamente (in richiamo all'inizio del film) sul velivolo della squadra. Regge "quasi" la durata, si diceva: perchè negli ultimi minuti il film si sofferma sulla dipartita di un compagno d'armi rimasto ferito, esprimendo con toni tristi (del tutto ovvio che, invece, le morti dei nemici occupino solitamente un secondo) il contrasto tra la sostanziale riuscita della missione e le inevitabili perdite.
Uno degli aspetti più curiosi della pellicola è l'amena, quasi incongrua musica di Alan Silvestri, definita da un recensore di Imdb "cheesy 80s patriotic pop music". Il main theme si sente sui titoli di testa, poi mentre la squadra si raduna, poi in certi passaggi delle scene d'azione: pop baldanzoso che vorrebbe suggerire un "arrivano i nostri", ma pare un invito a non prendere molto sul serio il film. Per Lee Marvin è l'ultimo film, l'ultima occasione di vedere la sua spiccia, virile signorilità. Per Delta Force, invece, ci sarà un seguito...
Alessio Vacchi