sabato 28 aprile 2012

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 27 TORINO GLBT FILM FESTIVAL, 19-25/4/2012


Senza preamboli e focalizzandosi sulle cose effettivamente viste.
Senza dubbio il miglior film, tra quelli nuovi, per chi scrive è stato Beauty (Skoonheid) di Oliver Hermanus, in concorso. Sudafricano bianco, benestante, proprietario di una segheria, sposato ad una moglie verso la quale ha un atteggiamento freddo come per ogni cosa della sua vita, François è nascostamente gay (è solito ritrovarsi con altri come lui, che però sostengono “Non siamo finocchi”) e prova desiderio per il bel nipote, finché non gli appare la possibilità, mentendo e forzando le cose, di averlo. Di rado è stato portato sullo schermo un tale ritratto di incapacità di accettare serenamente la propria preferenza sessuale. Il film è come un lungo grido soffocato, di dolorosa bellezza, che mette in scena un'esistenza paurosa, dove non c'è amore e non c'è luce, non c'è spiraglio d'uscita ma solo repressione di sé e conformismo che formano una pentola a pressione umana verso cui si prova pena. Se la regia di Hermanus è di quelle distaccate e spietate, a base di inquadrature lunghe che non risparmiano nulla e contemplano i tempi morti nel seguire il protagonista – una impostazione da film d'autore non nuova, ma assolutamente efficace – , una parte del peso del film la regge quest'ultimo, un congruamente controllato e credibile Deon Lotz. L'inquietudine è sottile e persistente, messa a fuoco molto bene in sequenze come quella in cui François si lascia andare, smarrito, in discoteca. Non per tutti (contiene un paio di sequenze shock, quasi simpatica in sè la prima e disturbante la seconda; e uno spettatore giorni dopo: “È come due Ludwig messi assieme!”), con un finale forse sin troppo sospeso e simbolico, ma, se ne si coglie l'intensità, Beauty è notevole.
Il premio Ottavio Mai per il miglior lungometraggio è andato però a Prime Time Soap (A novela das 8) di Odilon Rocha, suo primo lungometraggio già vincitore per la migliore sceneggiatura al festival di Rio. Nel Brasile di fine anni 70, governato dalla dittatura militare, si muovono Dora, donna dal passato rovente che l'ha tagliata fuori da famiglia e affetti, a cui cercherà di riavvicinarsi dopo un gesto irrimediabile; Amanda, a cui fa da cameriera, prostituta frivola – ma destinata a maturare –, fan di “Dancin'Days”, telenovela che Rocha elegge a simbolo della possibilità di sognare in quel contesto ma che poteva essere presa pure come velo per ciò che accadeva nel paese; Caio, che è figlio di Dora e non lo sa e la cui omosessualità – tema non centrale nel film – sboccia nel flirt con il figlio di un importante medico; Vicente, ex compagno di Dora che ha optato per la militanza politica clandestina; Brandao, funzionario di polizia arrabbiato e violento. Stilisticamente corretto, è un film godibile, che emoziona a sufficienza, di taglio volutamente un po' popolare, catartico nel far vincere l'amore e la vita anche a scapito della credibilità. Ancora in concorso, il quantomeno discreto Keep the Lights On di Ira Sachs, Teddy Award all'ultima Berlinale: la relazione tormentata fra Erik, un documentarista aduso a cercare sesso occasionale e Paul, un avvocato ufficialmente etero che casca e ricasca nella dipendenza dalla droga. Molta sensibilità in un racconto che si focalizza sulla solitudine di chi aspetta l'altro e soffre, in questo caso il personaggio di Erik. Anche se le ellissi non evitano buchi (che fine fa la ragazza di Paul?) e il quieto realismo sfiora, prima della fine, la noia.
Nella sezione “Lesbian romance”, interessante Trigger, nuovo film di Bruce McDonald (Pontypool). Vic e Kat facevano parte di un gruppo punk rock e a distanza di anni dalla rottura non serena, la seconda ritrova la prima per convincerla a partecipare ad una breve reunion. Differenze caratteriali e vecchi rancori, ma anche confessioni personali in un film che si snoda lungo una notte e si conclude all'alba senza un climax né un amore che sboccia, ma semplicemente col recupero di un rapporto. Tanto dialogo, ovviamente e due buone attrici (poca musica, però): il risultato è una pellicola ad altezza uomo che fa simpatia e ha le carte in regola per piacere senza essere ruffiana. Con uno scarto onirico che fa sgranare gli occhi.
Anche Bye Bye Blondie, il nuovo film della Virginie Despentes di Baise moi, è la storia del riavvicinamento di due donne, che però erano effettivamente state amanti, da ragazzine. Gloria, ai ferri corti coi genitori e dedita ad isterie (Soko, “nuova regina del pop francese”: se ne prende atto), e Frances si conoscono in istituto psichiatrico e si piacciono anche se, una volta fuori, vien fuori che la prima è punk e l'altra skin. Molti anni dopo, la prima (Dalle) è una nullafacente, la seconda (Béart) una famosa presentatrice tv con marito gay, sposato per le apparenze. Si rivedono e riattraggono, ma Frances si vergogna dell'amante-mina vagante incapace di stare in società e la confina in una parte di casa sua. In parallelo scorrono le storie della coppia da giovane e di quella attuale. Si tratta in pratica di una commedia, che non scandalizza (e vabbè: le due coppie si baciano e strusciano vestite, anche se Clara Ponsot, che fa Frances da giovane, è sensuale), ma nemmeno graffia, se non in una sorta di colpo di scena quasi alla fine e certe scene giovanili suonano insincere. Gli elementi che catturano l'attenzione sono il corpo ingombrante di Béatrice Dalle e il volto tristemente limitato dal silicone di Emanuelle Béart.
Lesbiche pure in Joe+Belle, commedia nera, dall'Israele, che racconta il legame che nasce, e si trasforma poi in attrazione, tra una ragazza (letteralmente) matta e un'altra nel cui appartamento lei si è installata, dopo un omicidio non premeditato che le costringe a diventare fuggiasche, senza che la cosa rovini certo loro la vita. Le due ragazze funzionano e c'è qualche divertente momento stralunato. Il film è stato preceduto da un corto ungherese, Tough Girls Don't Dream, dallo spunto bello – un mondo in cui il sonno è proibito e sognare è concesso solo a professionisti tesserati che poi rendono i loro sogni visibili a tutti – ma deludente. 
Nella sezione Vintage si è visto Come mi vuoi, presentato dal regista Carmine Amoroso che (oltre a mostrarsi convinto che il film fosse del 1997 invece che di un anno prima) ha ricordato la fredda accoglienza da parte della comunità gay verso questo film di cui temeva non esistesse più una copia in pellicola e che avrebbe voluto girare Monicelli. In questa commedia con Enrico Lo Verso travestito che fa “innamorare” un Vincent Cassel poliziotto fidanzato di Monica Bellucci, alcune battute suscitano risate volontarie (così come certe uscite dialettali della Bellucci), ma il film, quantomeno acerbo, soffre di evidenti problemi di polso e ritmo e l'andazzo recitativo di Lo Verso – che pure, sostiene Amoroso, aveva voluto quel ruolo – non aiuta. Riscoperte più effettive, Amici complici amanti (1988) e Le amicizie particolari (1964). Il primo è scritto e interpretato da Harvey Fierstein – al pari della piece teatrale da cui nasce – , che impersona un protagonista troppo “checca”, smorfioso (penosa la scena con le pantofole a coniglio) e battutista, alle prese con i suoi amori, con una madre (Anne Bancroft) che non si fa una ragione della sua omosessualità e un figlio adottivo. È comunque un film gay mainstream riuscito e brillante. Il secondo, diretto da Jean Delannoy, è un pudico ma audace racconto di sentimenti castrati dall'alto, in quanto sconvenienti, all'interno di un collegio gesuitico. Fa sorridere il doppiaggio italiano che, in stile ventennio, nazionalizza i nomi francesi.
Tra i documentari, è stato riproposto Il “fico” del regime di Ottavio Mai e Giovanni Minerba (direttore del festival), ritratto di Giò Stajano, scomparso l'anno scorso, tecnicamente datato e povero e senza preoccupazioni di ritmo. Giò, che era diventato donna da una decina d'anni, si aggira (troppo) lungamente per la casa dei suoi avi e racconta un po' di sé, con consapevolezza e umorismo. In più, un blocco di alcune sue apparizioni cinematografiche. Schuberth-L'atelier della dolce vita di Antonello Sarno, invece, è un breve omaggio al sarto delle dive italiane anni 50 e 60, interessante per un micidiale aneddoto raccontato da Christian De Sica, per una Lollobrigida che dice le sue cose, guardando in macchina, didatticamente e soprattutto per i brani di cinegiornali in cui Schuberth è oggetto di frecciatone omofobe non da poco (per le quali, però, pare non se la sia mai presa).
Alessio Vacchi

Nella foto, Gina Lollobrigida ed Emilio Federico Schuberth.

domenica 8 aprile 2012

Comunicazioni di servizio. COMING SOON


Il prossimo aggiornamento del blog sarà il 29 aprile e incentrato sul Torino GLBT Film Festival (19-25 aprile).
A.V.

domenica 1 aprile 2012

The freak show. SHOCKING DARK



"Il patriottismo è la virtù dei perversi", diceva Oscar Wilde. Può darsi, ma dopo dozzine di film stranieri, mi sembra giusto spendere un paio di parole sui misfatti di casa nostra, anche perché proprio in Italia nacque, visse e morì un peso massimo del cinema "de genere", le cui pellicole sono oggetto di malsano culto presso i video-freak di mezzo mondo. Un uomo che non ha bisogno di presentazioni: signore e signori, Bruno Mattei! Al pari di tanti altri suoi colleghi, il nostro ha la sua cifra stilistica (quantomeno in riferimento ai generi che frequentò dalla fine degli anni '70 in avanti) nel fotocopiare spudoratamente film stranieri di successo, perlopiù a stelle e strisce, riproponendone versioni tarocche come il peggior venditore ambulante. Ciò che veramente colpisce del modus matteiano però (e che lo differenzia da gente come il compianto Joe D'Amato\Aristide Massaccesi) è la quasi assoluta assenza di rielaborazione e\o modifica dei materiali originali: gli unici picchi di originalità rispetto ad una data pellicola erano in genere elementi rubati ad un ulteriore film, spesso usati come plot secondario all'intreccio principale.
Shocking Dark (uscito in Italia come Terminator 2 nel 1990 per gabbare i più ingenui) è un perfetto esemplare di questo fenomeno di ibridazione: la trama è pesantemente ricalcata su quella di Aliens, al punto che intere sequenze, battute comprese, sono importate verbatim dal film di Cameron. Quando poi si tratta di "sorprendere" lo spettatore con un qualche twist, ecco entrare in scena una spia cyborg (elemento invero non estraneo alla saga degli xenomorfi) che rifà il verso a Terminator e per tutto il terzo atto accentra su di sé l'attenzione, relegando in secondo piano i mutanti a buon mercato creati dai fratelli Paolocci (massimi esperti nostrani di effetti speciali caserecci). Ora, detta così la pellicola sembrerebbe il sogno bagnato di qualsiasi teorico piparolo ed intrippato col post-moderno (quelli che osannano roba tipo Scream 3 o Death Proof perché sono film che parlano di film), ma dubito che la maggior parte di questi radical chic da videoteca digerirebbe con piacere la realizzazione ultra-economica o i dialoghi trapana-gengive con cui lo sceneggiatore Claudio Fragasso (altro nome "cult" per certuni) ha infarcito il pastone. Di suo, Mattei probabilmente non guardava i film da clonare o, se lo faceva, non prestava particolarmente attenzione: la sua regia mira al minimo indispensabile, con scene che spesso si riducono a totali statici con conseguente zoom sui primi piani. Minimo sforzo, minimo risultato. Ai più tenaci, consiglio vivamente di recuperarlo in inglese per poter gustare gli strafalcioni degli attori che cercano di sembrare 'meregani.
Emiliano Ranzani
Immagine da cooltarget.blogspot.com

The freak show. ROBOWAR



Una squadra di mercenari in missione nella giungla viene attaccata da una misteriosa entità che ne elimina i membri uno ad uno. Che film è? Se la vostra risposta è Predator e si fosse nei primi dieci minuti di Scream, ora sareste già appesi ad un albero con le budella a penzoloni. Al diavolo Hollywood: questo è Robowar di Bruno Mattei (applausi, prego)! Uscito nel 1989, a due anni dal prototipo a stelle e strisce, la pellicola vede il fusto americano Reb Brown (protagonista di Yor, Strike Commando, L'ululato 2 ed un paio di scadenti film su Capitan America) interpretare il ruolo che fu di Arnold "The Governator" Schwarzenegger, accompagnato da un paio di grantici caratteristi nostrani (Massimo Vanni e Romano Puppo) più alcuni figuranti etnici di importazione per dare al tutto un tono più 'meregano. I nostri sono parte di una squadra d'elite chiamata, in inglese, Big Ass Motherfuckers (alla lettera, "Grandi Figli di Puttana"), nomignolo che strappa sempre risate isteriche agli spettatori anglofoni, nonostante lo sceneggiatore Claudio Fragasso (in coppia con la moglie Rossella Drudi) si vanti di sapere benissimo come parlino gli americani: peccato che l'intero popolo degli Stati Uniti non sia d'accordo (se non ci credete, guardatevi il documentario The Worst Movie Ever). Inviati da non-si-sa-bene-chi a fare non-si-sa-bene-cosa (gli ordini sono molto vaghi) in una giungla pullulante di filippini, i B.A.M. seguono alla lettera la scaletta del film di John McTiernan, imbattendosi in cadaveri di soldati trucidati, prendendo d'assalto dei guerriglieri (aggiungendo così al gruppo una donna: in questo caso la bionda Catherine Hickman) e sparando alla cieca sul fogliame più e più volte fino all'entrata in scena del loro avversario, il prototipo di un androide da combattimento chiamato Omega-1. L'essere, costruito coi resti di un soldato morto in Vietnam (e qui si ruba da Robocop: come sempre, Mattei copia due film al prezzo di uno), è sfuggito al controllo dei suoi creatori e spetta ai nostri eroi il compito di fermarlo.
Al pari del successivo Shocking Dark, il film colpisce non tanto per la sfacciataggine con cui fotocopia altre pellicole, ma per come Mattei sia completamente incapace di ricrearne il feeling: la sua regia mira sempre al minimo indispensabile, senza alcun guizzo o invenzione; è inoltre interessante notare come, contrariamente a precedenti fatiche del regista (tipo Virus o Rats), Robowar sia privo di sangue ed effettacci, probabilmente vista l'esigenza, tipica dei tardi anni '80, di avere prodotti più pacati per il mercato televisivo. Per il resto, poco da dire: gli attori fanno quello che possono, le scene d'azione sembrano uscite da un episodio di A-Team (anche se qui la gente muore, ma amen) e la colonna sonora firmata Al Festa consiste in larga parte da un irritante motivo di suspense ed un brano hard rock da discount. A dispetto del basso budget, l'androide (altra creatura dei fratelli Paolocci) non è malaccio da guardare e, più in generale, è d'uopo ammettere che l'intera pellicola ha certamente più dignità di cose come Watchers 3. Come direbbe lo Zio Francesco di Non si sevizia un paperino: “viva l'Italia, figghio!”.
E.R.
Immagine da http://mrgablesreality.blogspot.it/2010/09/bad-movie-review-robowar-1988.html

Il trailer http://www.youtube.com/watch?v=onbkXlzzywU

The freak show. CARNAGE ROAD


Su dvd Quantum Leap (GB).

Sapere chi è Massimiliano "Max" Cerchi non è probabilmente motivo di vanto, nonostante la rarità del pugno di filmetti straight-to-video da lui realizzati a cavallo tra la seconda metà degli anni '90 ed i primi giorni del nuovo millennio. Chi scrive scoprì la sua esistenza nel 2001 tramite uno speciale di Rai Sat dedicato al cinema di "serie B" (parole loro, non mie) che vantava interviste a gente come Lloyd Kaufman, Brian Yuzna e Andreas Schnaas: ma ora basta parlare di me. Napoletano verace, qualunque cosa questo significhi, Mr. Cerchi ha dato il via alla propria carriera di regista e produttore dopo essere immigrato negli USA e aver fondato la propria casa di produzione, la Rounds Entertainment ("Rounds" vorrebbe significare "Cerchi" nelle sue intenzioni): tutto questo, però, non prima di essersi appropriato della paternità di "Plankton" del povero Alvaro "Al" Passeri che, da quel giorno in poi, sarà sempre considerato come uno pseudonimo del diabolico Massimiliano (a questo punto potrebbero nascere battutacce sui napoletani e la loro propensione al furto, ma sorvoliamo). Carnage Road è la quarta opera della Rounds dopo i precedenti Satan Claus, Hellinger e Kendall Ransom: Bounty Hunter, realizzata nel 2000 nel deserto del Nevada dopo il trasferimento di Cerchi da New York a Las Vegas: trattasi nient'altro che di un becero slasher, fortemente debitore di Non aprite quella porta, Le colline hanno gli occhi e qualche spruzzata dei vari Venerdì 13 tanto per gradire. I protagonisti dovrebbero essere un pugno di studenti di fotografia impegnati ad esercitarsi (e cazzeggiare) nelle lande desertiche, ignari che la zona sia il territorio di caccia di QuiltFace, un leggendario maniaco omicida armato di machete e con un patchwork di pelle umana a celargli il viso.
La trama sentita e risentita è forse l'ultimo dei problemi per questo filmino dilettantesco girato in digitale (ad occhio e croce, con una Sony VX1000 ogni tanto dotata di un pessimo convertitore grandangolare); anzi, diciamo pure che ce n'è per tutti e non si sa nemmeno da dove cominciare: attori da recita scolastica, suono pessimo, effetti speciali che non sono speciali nè di effetto, montaggio pedestre, immagini inguardabili, musiche che sembrano suonerie da cellulare e, last but not least, una regia colma di lacune, del tutto incapace di costruire anche la più banale delle sequenze (non è un caso che molte scene siano realizzate con poco più di un'unica, traballante ripresa in continuità). I lettori di Fangoria Magazine (storica rivista horror a stelle e strisce) riconosceranno la maschera del "mostro" come una delle tante che, ai tempi, si potevano comprare per corrispondenza per cinquanta dollari o meno. Dopo essere incappato in una serie di beghe legali e finanziarie, Cerchi ha fatto armi e bagagli e si è trasferito dapprima in Thailandia e poi in Brasile dove realizza video porno a tema transessuale: come si dice, chi l'ha dura, la vince.
E.R.

The freak show. PLANKTON


Su dvd Stormovie.

Un film ridicolo: diciamolo subito e senza giri di parole. Conosciuto anche come Creature dagli abissi, Plankton (AD 1994) è il brain-child di Alvaro "Al" Passeri, specialista di effetti ottici e meccanici di film come Ator e I guerrieri dell'anno 2072 oltre che una persona sicuramente affezionata ad un certo tipo di cinema: ma nonostante la simpatia (il nostro continua ancora adesso a provare a fare film), il film resta indifendibile. La storia (più un abbozzo di trama) parla di un gruppo di ragazzi che, a bordo di un gommone, si perdono in mare aperto durante una tempesta, solo per imbattersi in uno yacht abbandonato dove venivano condotti strani esperimenti di genetica: nella sconclusionata sequenza d'eventi a seguire, alcuni saranno aggrediti dai mutanti, altri diverranno a loro volta mostri sanguinari.
Molti film del genere sono realizzati in ristrettezza economica, ma Plankton, girato com'è nelle tre stanze di una barca, è ufficialmente al di sotto della soglia di povertà e vedere la vicenda ciurlare nel manico in un paio di metri quadri instilla uno strano mix di sensazioni, nessuna delle quali positiva nemmeno per un film dell'orrore. Gli attori sono corpi animati che ciarlano battute allucinanti, la fotografia è inesistente, il montaggio stopposo e la regia di Passeri lascia quantomeno perplessi, soprattutto a causa degli assurdi inserti di mostruosità ittiche assortite con cui il film è periodicamente intervallato senza soluzione di continuità. "E gli effetti speciali?", direte voi? Beh, diciamo che, mentre a quelli meccanici si può dare una stiracchiatissima sufficienza (il famoso "6 politico"), il grosso degli effetti ottici è da bocciare sonoramente. Per chiudere, un film che forse nemmeno i cultori del trash possono digerire: e ciononostante un certo Massimiliano "Max" Cerchi (che forse o forse no lavorò in questo film in un ruolo non specificato) si appropriò alcuni anni dopo della paternità dell'opera (secondo lui, "Al Passeri" è un suo pseudonimo) per lanciare la propria carriera di cineasta low-budget negli USA. Ma questa, come si dice, è un'altra storia.
E.R.
Immagine da zetamovies.org.

The freak show. PIECES

Su dvd Stormovie.

La motosega. Un attrezzo da lavoro che da almeno quarant'anni è entrato nell'immaginario orrorifico come brutale strumento di tortura e morte. Tuttavia, le pellicole che vedono la regina dei ferramenta realmente impegnata a spargere sangue e frattaglie a secchi si possono contare sulle dita di una mano mozzata - e no: "Non aprite quella porta" (quello del '74 - i remake sono tabù da queste parti) non fa parte di questa cerchia e chiunque vi dica il contrario dovrà essere obbligatoriamente bollato come "poser". Pieces è già più degno di essere incluso in questo gruppo, anche se bisogna precisare una cosa: Pieces non è un capolavoro. Nè un gran film. O un film memorabile, se lo chiedete a me. Pieces è un filmetto da drive-in, caricato con una buona quota di tette e plasma perchè i soldi dei distributori esteri cambino di mano. Pieces non ha grandi pretese, mira basso e solo per questo, forse, si può dire riuscito.
Girato in Spagna (con ambientazione americana), la pellicola va dietro al fenomeno degli slasher movies dei primi anni '80, anche se i palati più navigati non faranno fatica a distinguere un gusto decisamente più europeo, se non propriamente iberico, nella messinscena: l'attenzione alle grazie delle attrici ha sicuramente un che di latino, ma forse è il terrificante doppiaggio inglese a fare da sirena d'allarme prima di qualunque vezzo di regia. La storia è presto detta: un maniaco vestito come The Shadow (cappellaccio nero e sciarpa a coprirne il volto) aggredisce ed affetta come tronchi d'albero le studentesse di un college, portandosene via ogni volta un pezzo diverso. Che ci farà mai? Chi ha già visto Blood Feast, Gli orrori del liceo femminile o anche Resurrection (quello con Cronenberg che fa il prete) sa già la facile risposta, ma il tenente Bracken (il Cristopher George di Paura nella città dei morti viventi) ci metterà comunque più di un'ora a scoprirla. Il regista, lo scomparso Jean Piquer Simon (che qui si firma J.P. Simon - da leggersi come "Saimon" - per sembrare 'meregano), dirige con la tipica mano del televisivo vecchia scuola senza alcun virtuosismo di sorta: la macchina da presa è generalmente statica, il campo medio a meno che non sia strettamente necessario fare altrimenti. La drammaticità va a spasso e la tensione è in perenne pausa caffè, in compenso lo splatter, di quello grumoso e senza rimorsi, è sempre pronto ad andare in scena con sangue ad ettolitri e veri quarti di maiale (è pur sempre la Spagna del 1982) a fare da controfigura alle varie actrices. Ciononostante, Simon, che se la cava decisamente meglio di Herschell Gordon Lewis ma non è Lucio Fulci, non sembra interessato ad essere particolarmente morboso ed il tutto ha un che di scolastico. I tentativi di humour (come il clone sfigato di Bruce Lee) lasciano perplessi, ma ci pensano i momenti di ridicolo più o meno involontario, su tutti l'assassino in ascensore con la motosega nascosta dietro la schiena, a strappare qualche risatina.
E.R.

The freak show. SLUGS


Su dvd Starz/Anchor Bay (regione 1).

A molti di voi il nome Shaun Hutson non dirà niente immagino, ma non è un problema: sono qui per questo. Inglese e fiero di esserlo nonostante la cronica misantropia, Hutson è uno scrittore nato professionalmente con truci romanzi di guerra e tuttora attivo nel campo dei thriller, anche se nella sua ormai trentennale carriera il nostro ha operato in vari generi con almeno cinque diversi pseudonimi, uno dei quali è ancora segreto. Tuttavia, è alla narrativa horror, alla quale si dedicò tra gli anni '80 e '90, che il feroce Shaun deve la sua fama, quest'ultima cementata su uno stile diretto ed esplicito (ma più ricercato rispetto a gente come Richard Laymon) che lo ha portato a ricevere appellativi come "lo Shakespeare del Gore". Fanatico cinefilo, il signor Hutson ha diverse volte dichiarato di essere stato ispirato più dal cinema (in particolare da Sam Peckinpah) che non dalla letteratura: è perciò quantomeno ironico che nessuno dei suoi romanzi sia stato ancora adattato per il grande schermo all'infuori del suo debutto nel genere a cui questa rubrica è dedicata (sì, esatto: il musical fetish a sfondo sociale). Slugs - Vortice d'orrore (AD 1988) è un'altra creatura dell'iberico Jean Piquer Sìmon (lo stesso di "Pieces" e del successivo La "cosa" degli abissi), che questa volta gira (parzialmente) sul suolo americano e, forse ispirato dall'aria USA, confeziona un prodotto dal feeling decisamente meno europeo. Il risultato finale è e resta un mediocre b-movie dal quale Hutson stesso ha sempre mantenuto le distanze: "un film di merda" è in genere l'epiteto che preferisce per questo suo scomodo nipote.
La trama è quella del classico eco-vengeance: una nidiata di lumache carnivore, mutate dai rifiuti tossici di una vecchia fabbrica, inizia a cibarsi degli ignari abitanti di una pacifica comunità di provincia. A dispetto dell'opinione di Hutson, Slugs non è così male: ovvio, la premessa è quantomeno ingenua ma la storia fila liscia e con solide iniezioni di splatter che mantengono vivo l'interesse dello spettatore. Simon, da mestierante qual'era, continua con il suo stile televisivo, ma, anche grazie al direttore della fotografia Julio Bragado, il film riesce a camuffarsi piuttosto bene da filmaccio USA. Le feroci lumachine, poi, rappresentate come viscidi piranha di terra, instillano un'onesta dose di ribrezzo ed orrore, specialmente quando si punta sul grande numero. Nonostante il ridicolo di molte scene, i trucchi degli fx-men spagnoli colpiscono nel segno, con lo zenit del gocciolante e del sanguinolento toccato da un povero disgraziato a cui esplode la testa dopo aver inavvertitamente mangiato dell'insalata in cui si erano annidiati i letali gasteropodi del titolo. Il finale ambiguo lascia aperta la possibilità di un sequel mai concretizzatosi, quantomeno al cinema: tre anni prima del film, infatti, Hutson aveva dato alle stampe un secondo episodio intitolato Breeding Ground, ma, visto l'esito di questo primo adattamento, sicuramente fu felice che nessuno ne comprò i diritti.
E.R.

Il trailer http://www.youtube.com/watch?v=JvS3ZXZRSsk

The freak show. LA "COSA" DEGLI ABISSI

Tit. or.: The Rift. Spagna/USA 1990.

La breve moda del thriller subacqueo di fine anni '80 non significa solo The Abyss, Leviathan o La creatura degli abissi: pure gli spagnoli ci cascarono, aggregandosi alla fallimentare comitiva con "La cosa degli abissi" (altrimenti noto come The Rift o Endless Descent) diretto dall'alfiere dell'exploitation iberica Jean Piquer Simón. In questa iterazione del succitato concept, un sofisticatissimo sottomarino americano denominato Siren I sparisce nelle profondità oceaniche. I militari allora organizzano una missione di salvataggio, spedendo l'ingegnere responsabile del progetto ed una squadra militare sulla rotta del mezzo scomparso, a bordo del succedaneo Siren II. Nella loro ricerca, i protagonisti si imbattono in una nidiata di mutanti di varia natura, frutto di un segretissimo progetto di ingegneria genetica celato in un labirinto di grotte sottomarine.
Alla luce di questa sinossi, è chiaro come il titolo italiano sia dannatamente fallace (in quanto le "cose" sono più di una), ma è il male minore. Passiamo ai fatti: dopo aver rincorso lo slasher americano con Pieces e aver fatto incazzare Shaun Hutson adattando il suo viscido eco-vengeance Slugs, Simón gira quello che è fondamentalmente l'ennesimo clone di Aliens, con le sole iniezioni di splatter ('stavolta nemmeno troppo copioso) a differenziarlo un minimo dalla mischia. Nonostante il budget apparentemente più alto rispetto alle fatiche precedenti, gli effetti sono poco speciali, anche se alcune trovate, come le alghe carnivore, mettono di buon umore: evidentemente, il grosso dei fondi era servito per pagare le buste paga di attori come Jack Scalia, Ray Wise ed il leggendario R. Lee Ermey (il sergente istruttore Hartman di Full Metal Jacket, che qui interpreta un eroico capitano), gente non famosissima ma comunque conosciuta. Per il resto, tutta ordinaria amministrazione.
E.R.