domenica 27 ottobre 2013

Incompresi. Comici allo sbaraglio. I QUATTRO DEL PATER NOSTER

Italia 1969.

I quattro del pater noster è diretto da un Ruggero Deodato ancora lontano dalla fama dovuta ai film estremi/cannibalici: il suo film precedente è un musicarello con Little Tony, il successivo un cappa&spada sexy. Il regista ha affermato che fu difficile avere tutti e quattro i protagonisti, all'inizio del successo, insieme sul set, dati i loro impegni in tv. Di loro è Oreste Lionello quello che aveva già il maggior numero di apparizioni sul grande schermo. La distribuzione del film fu bloccata e rimandata causa sciopero dell'Istituto Luce: il film uscì qualche mese dopo, un po' allo sbaraglio, incassando in modo medio. Dopodiché, I quattro del pater noster (o Il temerario, finto nuovo titolo di una riedizione post-fantozziana, su manifesti col solo Villaggio), nonostante parte del cast, diventa il classico titolo da cinefili strampalati, oggi recuperabile in un vhsrip scattoso, con un paio di saltini.
Due compari che viaggiano assieme in carrozza (Villaggio-Toffolo) si appropriano di una cassa piena di monete d'oro, sottraendola a dei banditi che l'hanno appena rapinata da una diligenza. Si unisce a loro un predicatore (Lionello), cercano di restituirle, ma vengono presi per i malfattori e arrestati. In cella incontrano un peone rivoluzionario, che si rivelerà inadeguato e un po' infido (Montesano), col quale fuggono, ma uno di loro si prende il malloppo. I banditi di nero vestiti, dei cattivi non così temibili, li ritrovano e impongono loro di ritrovare e restituire il malloppo. Si ritrovano ed escogitano un piano: taroccare la roulette del casinò dei banditi (sic), affinché la gente si rivolti loro contro. Ma la conclusione sarà un accordo, in concomitanza con una rissona (poteva mancare?).
Non che sia il primo western umoristico italiano girato nel pieno del genere: i Brutos e Ric e Gian avevano già dato. Questa è una commedia western ed anche smaccata parodia: più volte il film finge di essere un western serio, o gioca con i moduli del genere, per poi sfociare in burla. L'inizio, emblematico, con i primi piani dei volti duri di Villaggio e Toffolo, che paiono in procinto di sfidarsi, ma una vera sparatoria sarà appannaggio, poco dopo, di altri personaggi; la cattura dei quattro sospetti banditi, che diventa una breve rissa; il duello fra Toffolo e Montesano, con tanto “rumore” Leoniano perché poi ad uno la pistola si inceppi e all'altro scivoli.
Oreste Lionello è poco riconoscibile, non fosse per la voce; quella di Villaggio è un po' stridula e l'attore propone già, rapidamente, gag che diventeranno punti fermi fantozziani - il grido in un angolo dopo essersi fatto male, il masticare di nascosto - ; Toffolo, che porta in giro la sua facciotta da ingenuo tranquillo ed è vestito di lunghe pelli, è leggermente stucchevole. Il migliore, quello che mostra più vena comica, è Montesano. Inaspettata una gag anacronistica, con Lionello che fa la cronaca stile radio (o tv) di uno scontro che sta coinvolgendo i suoi compagni, e che noi non vediamo, ad un gruppetto di popolani. Mentre spesso si dovrebbe ridere per piani capitomboli (compreso uno stunt notevole). Il tutto è passabile, a patto che non si chieda di rovesciarsi dalle risa.
La colonna sonora di Luis Bacalov vanta un tema serio, bello, sin troppo per il tipo di film (e anche da lì nasce il rovesciamento comico), e un altro che accompagna le gesta comiche dei protagonisti (serrate, nella prima parte), con piglio demodé. C'è tempo anche per una canzoncina (cantata da Villaggio e Toffolo). Si segnala un passaggio nella neve che, pur senza essere probabilmente una citazione, non può non far venire in mente allo spettatore che conosce lo spaghetti western Il grande Silenzio. Tra gli sceneggiatori figura Maurizio Costanzo (all'epoca autore di programmi di varietà come, quell'anno, È domenica, ma senza impegno, con Villaggio e Lionello).

Qui un lungo e bel trailer, nonostante i colori appassiti, narrato da Villaggio: occhio al finale.

Alessio Vacchi

Incompresi. Comici allo sbaraglio. FURTO DI SERA BEL COLPO SI SPERA

Italia 1973. Su dvd IIF/Rai Cinema.

Quinto, che a inizio film vediamo cercare di rubare macchine parcheggiate mentre parla da solo, non sa stare lontano dal furto. Raduna perciò alcuni riottosi compari – lo strafalcioneggiante Armando, il meccanico Marcello dalla moglie incinta e sempre incazzata (Costanza Spada, moglie di Franco nella vita), Euforia, bizzarro personaggio, un gitano, doppiato da Ferruccio Amendola, dall'apparenza mortuaria (la quale ovviamente dà origine a diverse gag) e dalla parlata italo-romanesco-anglo-spagnola – per un colpo apparentemente grosso: si tratta di sottrarre un quadro di valore dall'abitazione di un benestante (un bravo Giuffré, che ha una manciata di sequenze), il quale sarà sedotto e distratto da una prostituta, che Quinto vuole credere brava ragazza. La banda, però, è a tal punto scalcagnata da finire con l'essere poco convinta di ciò che fa, quasi al punto di mollare e poi fallire in modo grossolano il colpo. Che viene effettuato, ma segue un colpo di scena: diciamo che non tutti hanno agito in modo “onesto”, i soldi non prendono il giro previsto, ma non per questo la furbizia di chi ha creduto di cambiare vita arricchendosi pagherà, perché qualcun'altro sarà stato più furbo ancora.
Quadri, colpi ladreschi e colpi di scena: magari a qualche pazzo verrà in mente In Trance leggendo queste righe, ma qui c'è Pippo Franco, a capo di una manciata di poco capaci “soliti ignoti” non proprio destinati al successo, come protagonista. Che non perde mai l'occasione per una battuta, per una osservazione atta a suscitare la risata, rendendo la pellicola costellata di umorismo. L'impressione, per quanto riguarda l'attore (che, ricordiamolo, l'anno prima era comparso in un cameo in un film di Billy Wilder, particina solitamente citata dai critici per rimpiangere il suo potenziale che sarebbe andato dissipato in tutte le altre sue produzioni), non è quella di un film recitato con la mano sinistra, ma di un'occasione in cui potesse sfoderare tutte le sue doti di attore comico e battutista. Poi certo, il risultato non è più che vedibile e inevitabilmente (?) qualche volta si ride, molte altre si abbozza un sorriso per uscite un po' facili, troppo marcate o da spirito di patata, provenienti a cadenza regolare da parte del suo personaggio di estroverso consapevolmente sfortunato, che le prende più volte. E la parte ambientata in casa del commendatore (Umberto d'Orsi) si fa chiassosa. Tuttavia, a ripercorrere la filmografia di Laurenti, facile che questo sia uno dei suoi film più dignitosi (non si arrabbino i fans delle commedie sexy) e meglio scritti (da lui, Franco e i soliti Mercuri e Milizia). La volgarità è irrilevante, marcando in ciò una distanza dal cinema del Bagaglino che di lì a pochi anni sarebbe arrivato. Le buone musiche sono di Pippo Franco, che in apertura e chiusura propone anche un brano cantato, Furto di sera.
Da citare infine le esibizioni dei vari immancabili marchi 70s, che non mancano affatto, anzi in ospedale si serve acqua Pejo e in un altro momento una bottiglia di J&B è ben alzata a favore di camera.
A.V.

Incompresi. LE FINTE BIONDE

Italia 1989. Su dvd Medusa.

Prodotto da Achille Manzotti e tratto dal romanzo omonimo di Enrico Vanzina pubblicato pochi anni prima, Le finte bionde è uno dei capitoli meno fortunati della filmografia vanziniana degli anni '80, sebbene, Marco Giusti docet, dopo il flop nelle sale (non entrò neppure nei primi 100 titoli della stagione) il film ebbe un recupero in tv come “assoluto cult del mondo romano”; più avanti aggiunge, giustamente, “assolutamente per romani, forse”*.
A poca distanza da Via Montenapoleone e in vena di insistere sulla loro inclinazione di osservatori socioculturali (l'essere tali è argomento principe di chi li sostiene) di un'umanità che va tra i burinazzi e le classi medioalte o chi vorrebbe rientrarvi, i fratelli chiamano nel cast alcune protagoniste della coeva trasmissione tv di successo La tv delle ragazze: Cinzia Leone (in gran spolvero), Alessandra Casella, Francesca Reggiani. Sono tra le “finte bionde” che il film ambisce di raccontare: una categoria composta da borghesi romane coi soldi (e relativi compagni), che conducono una vita di livello ma sotto sono delle cafone, bionde perché, come illustrato all'inizio in una sequenza dove il personaggio della Leone se ne rende conto e va a farsi la tinta, sono loro a dominare. Con l'accompagnamento di una voice over (di Oreste Lionello, che presumibilmente recita passi del libro), il film prende e lascia le sue coppie di personaggi procedendo per sequenze tematiche, a costituire una specie di affresco di vita e quadro umano. Gli ambienti in cui i personaggi si muovono e mangiano (la trattoria di Mattioli, quando non si pasteggia a casa con ospiti), il problema di dove andare in vacanza e di trovare un appartamento adeguato, le spese... Questioni simili a quelli che si possono trovare in un romanzo dell'800 ambientato nell'alta borghesia, qui illustrate in uno spaccato sociale a matita grossa di fine anni '80. Gli oggetti, anche: una sequenza (in cui compare il caratterista Renzo Ozzano) mostra la moda del telefono, ancora con fili, in macchina e un'altra la “videomania” del possedere un numero spropositato di televisori e girare e conservare filmini di ogni cosa. I problemi sentimentali-sessuali restano a margine, relegati a qualche scenetta con personaggi lampo o alle sequenze con la litigiosa coppia Casella-Massimo Wertmuller. I protagonisti parlano di futilità, si cercano e si incontrano ma al contempo si criticano l'un l'altro. Stile e orizzonti di vita sembrano creare loro soprattutto stress.
Alcune notazioni e battute sono carine (esempio, Mattioli che, preoccupato, dice alla debole moglie di non svenire, ché potrebbe perdere l'abbronzatura; o la coda di inservienti stranieri a fare commissioni per i padroni), ma resta una pellicola che si guarda con un vago senso di fastidio. Per via della botta di romanità cui si è accennato e da cui si può essere un po' respinti, e per i personaggi estroversi e pesanti (Antonello Fassari...) messi in scena con occhio ammiccante e interpretati con spavalda sicurezza, di modo che si capisce come si cerchi la risata ma paradossalmente viene frenata. Anche se nell'ultima parte i Vanzina sembrano voler compensare e dare il fatto loro ai personaggi, il cui viaggio di ritorno da una vacanza collettiva in Brasile (che non vediamo) risulta in un'odissea causa maltempo, al punto che sono costretti a dormire in stazione, scambiati per poveri immigrati.
Guido Nicheli, avvocato sposato con Paola Quattrini, è tra i più bravi (suo un rimarchevole “Merviglius!”). Ci sono anche Sergio Vastano, Licia Colò e in ruoli minori Isaac George, Claudia Gerini, un capelluto Pino Insegno, che ha una sequenza in cui cerca di concludere con la sua ganza. Antonio e Marcello de I fatti vostri compaiono nei panni di loro stessi e firmano la colonna sonora, compresa la title track dei titoli di coda, introdotti dalla presentazione di interpreti e personaggi, ognuno soprannominato con la storpiatura di un titolo di film. 
A.V.

*"Dizionario dei film italiani stracult", Sperling & Kupfer, 1999, pag. 288.

Incompresi. Comici allo sbaraglio. SILENZIO SI NASCE

Italia 1996. Di Giovanni Veronesi.

Attenzione: “film di interesse culturale nazionale”. Due gemelli eterozigoti, definiti sui titoli di testa “il forte” uno (Castellitto) e “il piccolo” l'altro (Rossi), nella pancia della madre litigano, si avvicinano, cercano di capire il mondo che li aspetta fuori e quello in cui sono confinati: la vita appare loro come una faccenda confusa e poco allettante, tanto che ipotizzano una resistenza al “controllo” dei genitori e non vorrebbero neppure nascere.
Dopo titoli di testa che scorrono su della sabbia che smotta e che ribolle, il film epicizza la venuta all'esistenza (ragionando in un ottica pro-life, sottinteso) dei due, che emergono dal di sotto in quello che è scenografato come una sorta di pianeta sconosciuto, con pareti placentose, aperture da cui proviene luce di diversi colori, montagnole di sabbia; emerge prima il Forte, poi l'altro, che il primo non vorrebbe affatto fra i piedi e col suo essere parecchio incazzato fa sì che la prima parte del film abbia pochissimo humour. Attraverso una parete-schermo, il Piccolo vede immagini del mondo esterno: l'assassinio di Kennedy, finti spot di linee telefoniche, Carlo Conti, ma anche brani di film (Cotton Club e l'episodio Che cosa sono le nuvole?), da cui prende spunto per brevi monologhi in cui interpreta e spiega le cose à la Paolo Rossi, ciclo della vita compreso. L'altro contatto con l'esterno è immaginato: ipotetici flashforwards ambientati su una spiaggia, che ospita un'abitazione (senza pretese di realismo), in cui i due litigano per, praticamente, incesteggiare con la madre, mentre in un'altra sequenza si immaginano assediati, armi in pugno a lottare per la volontà di non nascere.
La madre è una Filippa Lagerback (doppiata) allora nota per essere la bionda della pubblicità Peroni, di cui un brano è tra le visioni del Piccolo nella pancia. Tra i due infatti nascono dubbi di natura sessuale, compreso il loro genere di appartenenza, che culminano in un lungo bacio (sic). Non manca anche un amplesso tra i genitori vissuto da dentro in modo preoccupato, con un cappellone-missilone che il Forte tenta di spingere indietro (ri-sic). Il tutto è narrato in flashback, con la voce off di Castellitto mentre i due, in procinto di nascere, sono nudi – come saranno per tutto il film – , lucidi e incapsulati in palle trasparenti. La fotografia nel pianeta-pancia, in cui il blu predomina, è scura, come i corpi dei due nascituri, chiazzati di luce, che si portano appresso un lungo cordone ombelicale. La sensazione che questi danno è un po' sgradevole e probabilmente non ha contribuito all'appeal del film presso il grande pubblico: si tratta infatti di un flop (nonostante il passaggio dei protagonisti a Sanremo, che Giusti ricorda) anche se meno sonoro di come si potrebbe pensare, dato che superò il miliardo. I due, comunque, non giocano a fare i bambini e assomigliano piuttosto, solo per il dato visivo-corporeo, a due uomini primitivi. Ci sono anche degli interventi in voice over dei genitori che comunicano fra loro: la voce del padre suona familiare, e infatti è quella di Leonardo Pieraccioni, mentre la madre è Margaret Mazzantini, moglie di Castellitto. Sono partecipazioni non rilevate dalle schede Wikipedia e Imdb dei due.
Il film si prende abbastanza sul serio, ponendosi come riflessione, dai toni melanconici, sul nascere e sulla vita. Ma, sebbene Rossi e Castellitto non compongano una coppia comica rivelazione, forse avrebbe fatto meglio a prenderla più bassa. Non ci sarà scatologia, ma il risultato è pesantino e sembra un gioco tirato per le lunghe, in cui è perfettamente comprensibile stufarsi di questi due che giocano ai (quasi) bambini-adulti. Resta una bizzarria italiana che, a rivedere oggi, stupisce sia stata prodotta dalla Filmauro, ma è pur vero che la casa all'epoca dava luce non soltanto a incassi sicuri al botteghino (L'odore della notte è di due anni dopo). L'uscita fu preannunciata da un teaser trailer non reperibile sul tubo.
A.V.

Incompresi. Comici allo sbaraglio. LA GRANDE PRUGNA

Italia 1999. Di Claudio Malaponti. Su dvd Cvc.

“Il film con il maggior numero di comici di tutti i tempi!”, recitava la locandina: ma il meccanismo che porta al cinema un pubblico desideroso di rivedere chi sembra apprezzare in tv, stavolta non ha funzionato, mentre la critica si è messa le mani nei capelli. La “grande prugna” del titolo è il capoluogo lombardo, ambientazione di questo “ultimo film milanese del millennio”* che raccoglie molti comici di provenienza Zelig. Nella finzione, il centro da cui questi si irraggiano, idealmente più che fisicamente, è il “Famoso cabaret della zona”.
Poco fruttuoso da raccontare con puntiglio, il film va avanti per una serie di sketch o abbozzi, collegati da personaggi che fanno da ponte o che compaiono più di una volta, senza però diventare episodi che scorrono paralleli, con un inizio, una fine e uno sviluppo. E questo non aiuta a generare un vero interesse. Ricorrono Enzo Iacchetti nei panni di un giornalista che chiede a chi ferma: “Se avesse sei colpi in canna, chi ammazzerebbe?”, un complessino boliviano che suona il tema del film e, meno spesso, Flavio Oreglio, che impersona l'avulso commentatore Amletotò, vestito da bardo e con pelle scurita, cantando anche una sorta di ballata sui titoli di coda.
La forma può essere discutibile e non mostrare gusto, ma non è sciatta: Malaponti ci dà dentro con inquadrature dall'alto, dal basso, grandangolari. Uno stile che è parodizzato all'interno del film stesso (metacinema!), quando Iacchetti rimprovera il suo cameraman, che lo riprende da sotto in su: “Cosa inquadri? I fili, inquadri?”. Su questo punto il film riserva alla fine un colpo di scena; più un altro, che quadra poco e suona quasi stonato, relativo a una traccia narrativa su cui il film non aveva fin lì insistito, l'aggirarsi di un killer, “il Mostro dell'alfabeto”, che uccide procedendo un'iniziale di cognome dopo l'altra.
Approccia la satira sociale il segmento in metropolitana, con Ale e Franz guardiani che inseguono, goffamente ma con aria feroce come fosse un pericoloso delinquentone, un tizio dell'est che mendicava con la fisarmonica su un vagone. Non malaccio, con stile attoriale, lo sketch con Michele Foresta al bar gestito da Olcese e Margiotta, che ruota intorno a un presunto caffé non pagato/scontrino non fatto, con le reazioni schizofreniche, dal massimo di calma diplomatica allo spaccare tutto, del duo. Scuote l'attenzione un momento con Luciana Littizzetto incazzata e pistola in pugno (ma non sta facendo sul serio), protagonista anche di uno dei pesanti equivoci mimico-verbali a “sfondo” sessuale presenti occasionalmente nel film, con situazioni scambiabili per coiti e masturbazioni, soprattutto quelle che coinvolgono la coppia composta da un pornomane e una ragazza occhialuta che si conoscono al sexy shop: una gag si conclude con un facialone di latte sul viso di lei!
Purtroppo, per quanto si possa partire con la speranza di sollazzarsi, si ride davvero poco. Un'ora e mezza circa di “gran” parata di comici che scorre davanti allo spettatore, con sempre minore speranza che qualcosa conquisti e la noia che serpeggia. Una idea carina (ma che, si intende, non sposta più in su il giudizio sul film) è quella delle piccole fototessere dei componenti del cast artistico e tecnico che accompagnano titoli di testa e coda del film.
Questi ultimi si seguono con interesse per il “who's who” del nutritissimo cast di stelle e stelline dello humour tricolore, molti ancora noti, che animano il film in parti di variegata consistenza. Oltre ai nomi già citati: Enrico Bertolino (titolare di pompe funebri che subisce un contrappasso ad opera di una vecchietta), Marco Della Noce (goffo marito di una moglie di classe sociale superiore, a cui porta vergognosamente in dono un vaso ridotto in pezzi), Natasha Stefanenko (moglie di un tizio che vede il loro matrimonio come una prigione eterna; compare per poco, ma era rilevata nella locandina), Max Pisu (Tarcisio), Giorgio Ganzerli e Alessandra Faiella (separati), Antonio Cornacchione, Diego Parassole, Zap Mangusta, il duo Capsula & Nucleo, Raul Cremona (un presentatore), Gianni Fantoni (un arbitro e un sacerdote), Dario Ballantini, Leonardo Manera, Claudio Batta, Brunella Andreoli. Guest stars, la voce di Sandro Ciotti e Renato Mannheimer (sic, una comparsata, non nella parte di sé stesso).
Ad un certo punto si vede il manifesto del film immaginario Prugna meccanica (ebbene sì). La grande prugna fu sponsorizzato da Radio 105, il cui logo si intravede alle spalle del dj che trasmette da un aereo dismesso, e i cui manifesti della campagna pubblicitaria dell'epoca sono ben fatti notare nella sequenza in metropolitana.
A.V.

*"Nocturno Cinema" n.12, marzo 2000.