domenica 26 ottobre 2014

Incompresi. Comici allo sbaraglio. IL VOSTRO SUPER AGENTE FLIT



















1967: siamo sul finire della moda del cinema spy. Dagli Usa vengono James Bond e i suoi epigoni, come l'oggi dimenticato agente Flint di James Coburn che suggerisce il nome al nostro eroe. Ma ci si muove anche in Europa, tanto che si definiscono “eurospy” le relative produzioni o coproduzioni spionistiche. In Italia, poi, escono un florilegio di titoli che, come si usava nei nostri generi, spremono il limone a più non posso, con agenti dalle sigle varie, da 008 a 077 a 3S3. E qualche parodia: più note quelle con Buzzanca (i due James Tont, Spia spione), meno questa, che è l'unico film da protagonista per Vianello, nei 60s comunque attivissimo al cinema, e il primo da regista per Mariano Laurenti.
Una razza aliena sta creando fortissime tensioni tra i paesi della Terra: riesce a controllare le menti umane quel tanto che basta a dar luogo a comportamenti, dichiarazioni improprie che fanno nascere improbabili incidenti diplomatici. L'obiettivo è far arrivare i terrestri a una guerra che autodistrugga l'umanità e lasci campo sgombro ai marziani (il cui punto debole è il contatto coi pesci) per insediarsi. C'è solo una persona, secondo la Nato, che può intervenire: “il superman” Flit, agente dalle mille risorse (Raimondo Vianello). Che si mette alla ricerca del gruppetto di biondi alieni (vestiti in tutina moscia grigia, ça va sans dire) nascosti nelle Alpi svizzere, mentre deve sfuggire all'agentone sovietico Smirnoff (Fernando Sancho), che lo ha già tentato di fucilare. Intorno a lui anche l'aliena Aura (Raffaella Carrà, inizialmente in improbabili panni maschili) che passerà dal tentare di sedurlo all'essere dalla sua parte.
Scritto da Bruno Corbucci, il film è una sciocchezza (tra l'altro: se tutte le nazioni sanno che cosa sta succedendo, perché si arriva a un passo dalla guerra lo stesso?) simpatica e leggermente noiosa, forse meno demodé dei nostri spy-movie “seri” e che non vale meno, per dire, del primo James Tont buzzanchiano. Varie locations come di prammatica (Parigi, Berlino) e gadget: ovviamente gli alieni hanno un visorino portatile per comunicare a distanza e col loro capo, mentre Flit si scava una fuga sottoterra con un rasoio elettrico e usa la sua stessa testa come “cervellone” - inserisce un fogliettino con informazioni in un orecchio, il cervello elabora e lo fa uscire dall'altro - . Flit è un mezzo superuomo, pieno di sé, durissimo a morire, stimato a livello globale, con un piccolo harem ai suoi piedi, e sempre pronto a menare le mani di taglio nella classica mossa marziale base dell'epoca, a costo di sbagliare più volte obiettivi.
Tra le cose più divertenti i titoli di testa animati, che scherzano sulla natura italiana e di serie B del film: il nome di Vianello è inserito fra quelli di famosi attori stranieri, e lo stesso per la Carrà (Greta Garbo, Marlene Dietrich...) e per Sancho (tra Kirk Douglas, Jean Gabin e altri) prima che vengano cancellati gli intrusi. Musiche di Verdi, Beethoven e Wagner? No, di Bruno Canfora; e Laurenti condivide inzialmente il suo cartello con nomi quali John Ford e Hitchcock. Dal punto di vista umoristico si può ancora notare qualche allusione sessuale e omosessuale: il tassista che, vedendo Flit placcare in vettura la Carrà in versione maschile (conciata da paggio del '700), commenta “Più gli anni passano e più ce ne sono”; “È un maniaco sessuale”, commenta il marito di una coppia a cui Flit vuole fare annusare un pesce morto; di classe, invece, l'accennata gestualità con cui Flit accompagna la frase “Tu la Terra la conosci già”, rivolta a una tizia che aveva giaciuto con lui e, alla fine, vorrebbe reclamarlo per sé e toglierlo da Aura. Nel pre-finale, poi, Vianello supera Gran Torino di Eastwood sul piano “armi fatte con le dita”.
La “fotografia a colori ultrapop di Tino Santoni” ricordata da Marco Giusti nel suo Dizionario dei film italiani stracult (pag. 847) è purtroppo azzerata nella copia che oggi tramanda il film, una registrazione da Italia 7 molto modesta e sbiadita al punto da lambire qua e là il bianco e nero. Nella stessa scheda del film, una dichiarazione di Laurenti che rivendica di essere stato il primo a volere la Carrà bionda.
Alessio Vacchi

Incompresi. Comici allo sbaraglio. LA MADAMA













Italia 1975.

L'agente della Mobile Militello (Christian De Sica) è un casinaro, che ha per zio acquisito il suo commissario (un Oreste Lionello mai tranquillo), il quale lo tollera. Si mette a indagare, rivalità con l 'Arma permettendo, sull'uccisione di un tizio, puttaniere, legato a un'organizzazione di autotrasportatori, con a capo il Veneziano (Gigi Ballista), che secondo lui nasconde un traffico di droga. Militello si infiltra e cerca poi di fare il doppio gioco col rivale del Veneziano, Sante Tonnaro (Ettore Manni). Sempre sul punto di venire trasferito, quando non di rimetterci la pelle, ma aiutato tra gli altri da un agente Cia, Militello dimostrerà di averci visto quasi giusto.
Dal romanzo omonimo di Massimo Felisatti e Fabio Pittorru, che scrivono insieme al regista (e a Franco Verucci), La madama è il primo film da protagonista di un De Sica ventiquattrenne, agli inizi, dopo essere stato diretto in una piccola parte dal padre e aver partecipato a un paio di commedie erotiche. La filmografia di Duccio Tessari è piena di titoli dalla componente umoristica più o meno marcata: film con Gemma (Arrivano i Titani, Una pistola per Ringo, Kiss kiss... bang bang), Per amore... per magia, Zorro..., e anche alcune commedie tout-court (Meglio vedova, l'invisibile Quella piccola differenza), accanto ad altri in cui si scherza ben meno (Il ritorno di Ringo, Tony Arzenta). Qui la butta decisamente sul ridanciano, girando una farsa poliziesca a rotta di collo, tra capitomboli e boutades. La madama si configura come uno di quei film che imbroccano la strada del divertimento, della vivacità in quinta, e se lo spettatore non rimane agganciato, come infatti accade qui, sono problemi. Capito ciò, non resta che vedere (se non si ha di meglio da fare) il dipanarsi di un lavoro decisamente al di sotto delle ambizioni come efficacia comica, il che non esclude qualche sorriso (ad esempio, quando Militello entra in una cabina, ne esce con barba finta e si giustifica con un testimone: “Una telefonata noiosissima, una barba così!”). Non aiutano i dialoghi di Maurizio Costanzo, il cui spirito umoristico è, a volte, tirato per i capelli e scarsino d'ispirazione in un modo che lascia increduli (esempio, il battibecco su “ìndago” detto al posto di “indàgo”).
Meglio allora, volendo, le scazzottate, sebbene oggi sembrino già trite nonostante il vederci coinvolto De Sica. Scontri il cui modello sono le scene analoghe dei film con Spencer e Hill – come è evidente nei minuti ambientati nella cella frigorifera, con oggetti usati per colpire, cattivoni che le prendono facendo una figura goffa e volti usati come punching-ball; mentre altrove De Sica si atteggia a samurai, dopo averne fatto un'imitazione, raggelante, di fronte al manifesto di un film – . I problemi del film, comunque, sono di scrittura e di ispirazione umoristica, non tanto da attribuire al beniamino di tanti cinepanettoni futuri. Chi non lo apprezza non resterà conquistato vedendolo qui, ma nel suo ammiccare risulta più fresco di quando esploderà, e strafarà, nel cinema, e la volgarità è bandita. L'idea di un De Sica poliziotto sui generis, estroverso e pasticcione (ma playboy e sempre ben vestito), non era poi sbagliata (il manifesto recita: “Italiani... finalmente anche noi abbiamo il nostro Serpico”, e così lo apostrofa con tono sfottente anche il capo). Inaspettato il finale in tono minore, un “arrivano i nostri” mancato, tra il rassegnato e il politico, in cui si vede un'altra didascalia umoristica che chiama in causa lo spettatore, dopo quella a inizio film che scherza sul consueto “I fatti narrati in questa storia non sono reali/Ogni riferimento a...”.
Rititolato furbescamente La madama l'agente Minchiello e il caso Patacchioni: ma il protagonista si chiama Militello e il caso in questione, che egli richiama sempre alla memoria del capo quando ha bisogno di una riapertura di credito, e che viene chiarito verso la fine, Pacchioni. Visibile su youtube in una copia con sottotitoli in greco, sfaldata, tremenda nelle scene al buio, la cui visione è una scelta per chi ha buona volontà: non se ne sono accorti neppure i fans di De Sica (o han desistito), ché non c'è un commento che sia uno. Carole André fa la combattiva giornalista fidanzata con Militello e il suo personaggio ha nome Angelo (sic).
A.V.

Incompresi. Comici allo sbaraglio. GEOMETRA PRINETTI SELVAGGIAMENTE OSVALDO



















Italia 1975.

Il geometra Prinetti sbarca in un'isola caraibica per effettuare delle rilevazioni preparatorie alla costruzione di un complesso. L'impatto con l'ambiente sarà problematico e lui è interessato più che altro alle “selvagge” (come chiama le femmine locali): fatale l'incontro con una affascinante donna di colore (Raquel Ferrari, accreditata solo qui).
In coppia con il fratello Mario, il baffuto Giuseppe in arte Pippo si era già fatto conoscere in diversi programmi tv; questo risulta essere il suo secondo film, dopo Passi furtivi in una notte boia e prima di infittire le apparizioni su grande schermo dal 1979 al 1983, tra Celentanate e pellicole a episodi, che lo renderanno definitivamente un volto di caratterista noto. Ed è l'unico da protagonista. Ferdinando Baldi che dirige è invece un veterano del cinema di genere/popolare, anche se la commedia non è il genere che ha più frequentato.
Geometra Prinetti..., rititolato La selvaggia, rientra in quella schiera di titoli stuzzicantemente invisibili - “quasi ignorato da pubblico e critica-se ne ignora l'incasso-non sono state trovate recensioni” - che si potevano scoprire sui dizionari del cinema italiano Gremese. È infine emerso in rete, in una copia telecinemata guardabile ma con problemi di proporzioni, un po' sfocata (fastidiosette le scene poco illuminate) e dai titoli di coda troncati.
Il personaggio di Santonastaso è quello di un ometto la cui presunzione - che a volte lo porta ad arrabbiarsi, come quando gli sbagliano fantozzianamente il cognome - e goffaggine, unite alla modestia fisica, dovrebbero far scattare la comicità. Il suo umorismo però è per così dire minimale, le battute brevi. In una scena tenta in ogni modo di sistemarsi su un'amaca, ma riderne è difficile. Meglio l'equivoco in discoteca, quando intimidito dal barman ordina un cocktail a caso che si rivela strampalato: ma in generale le situazioni sono deboli e/o tirate per le lunghe. Santonastaso mostra una vis comica insufficiente per essere il cuore di un lungometraggio. Nonostante qualche equivoco sessuale (un travestito scambiato per donna, Prinetti che a letto viene preso per una donna) e il baccaglio della nera da parte dell'ingegnere che lo accoglie, tutto attivismo e sorrisi da Satanasso, il film è piuttosto pulito, non ha quei contenuti voyeuristici e piccanti che ci si potrebbe aspettare considerato anche in quali anni siamo: pure quando all'inizio la segretaria dell'ingegnere (Pia Giancaro) assalta l'autista mulatto, il di lei appetito è reso con una velocizzazione che lo comicizza.
Per buona parte della pellicola si stenta a considerare Santonastaso protagonista, non per le sue carenze ma perché la sceneggiatura gli dà un'attenzione intermittente, rispetto ai personaggi secondari. Lo diventa a pieno titolo quando inizia, a 2/3 circa, la lunga parte in cui si imbatte nella sua “selvaggia”. Di fronte alla donna, che si fa inseguire, lui si mette in ridicolo, in qualche modo la seduce, le spiega i suoi progetti di vita in comune e sfoggia persino l'urlo di Tarzan. Ma noi sappiamo, dalla traccia narrativa con toni seri e lirici che la riguarda, che l'uomo sta prendendo una cantonata, perché lei è una “civilizzata” che ha deciso di tornare per riprendere contatto, brevemente, coi luoghi dove è nata. La macro-sequenza con i due – che rimanda al Signor Robinson con Villaggio, coevo – è anche tenera, ma vedendola ci si domanda nuovamente se fosse il caso di girare un film con l'attore emiliano come protagonista. E spiace constatare che il personaggio del barista romano che lo importuna nell'ultima sequenza, in pochi minuti fa più ridere di lui.
Quando si pensa di aver messo a fuoco dove si sta andando a parare, ovvero in una parabolina vagamente ecologista/anticapitalista in cui un uomo d'industria venuto a modificare un ambiente scopre un mondo altro, incontaminato, cambiando idee, vita e trovando l'amore, ecco che l'incrocio di percorsi dei due personaggi, che per uno è l'aprirsi di una nuova prospettiva mentre per l'altro è una breve, cosciente parentesi, sfocia in un finale non lieto, malinconico seppur temperato dal sorriso, che un po' sorprende e dà al filmetto un poco di spessore. Questa piega contribuisce a renderlo non antipatico, per quanto trascurabile e con una certa aria di pellicola girata in vacanza.
La cosa migliore sono senza dubbio le musiche dei consueti Bixio-Frizzi-Tempera, persino degne di miglior causa, tra il tema allegro legato al protagonista e un pezzo di respiro utilizzato nelle immagini en plein air. Su Imdb e sul Gremese è accreditata Stefania Casini: ma sui titoli di testa non è citata e chi scrive, francamente, non l'ha vista.
A.V.

Incompresi. Comici allo sbaraglio. CAINO E CAINO







Italia 1993. Su dvd Medusa.

Caino e Caino si situa in un momento di passaggio nella carriera registica di Alessandro Benvenuti (di cui negli Incompresi si era recensito I miei più cari amici), tra le commedie più toscane Benvenuti in casa Gori e Zitti e Mosca e un piccolo salto di sguardo “autoriale” e considerazione critica che comincia con Belle al bar. È poi, per un Montesano più maturo e misurato di altre volte (nonostante il contesto sopra le righe), la penultima apparizione cinematografica importante (dopo Anche i commercialisti hanno un'anima, c'è un buco fino al cameo nel sequel di Febbre da cavallo). Il film però floppa (con circa 883 milioni) e verrà poi proposto in tv con timidezza. Anche la critica non apprezza (il Mereghetti, severamente, gli assegna *). Montesano stesso, nell'intervista su “Cine 70 e dintorni” n.10, lo liquida in poche parole: “Anche questo [come Grand Hotel Excelsior e Grandi magazzini, nda] lo feci per far contento Mario Cecchi Gori. Però, ripensandoci, potevo scontentarlo, che era meglio per me e per tutti gli altri...” (pag. 20).
I fratelli coltelli Casamei, alla morte del padre, devono occuparsi dell'azienda tessile di famiglia, di cui ereditano ciascuno il 49%, mentre il 2% andrebbe a una delle vecchie amanti del babbo. Franco (Benvenuti), però, se ne appropria. Fabio allora escogita una vendetta kamikaze, mandando la finanza in azienda, anche se il “nero” ne esce rocambolescamente salvo. I loro sgambetti salgono di livello e mirano a distruggere le reciproche vite affettive/familiari: Franco mette allo scoperto la relazione del fratello con la moglie di un amico, Fabio fa lo stesso con la relazione adulterina dell'altro. Un punto di svolta a questa meccanica di azioni-reazioni a base di odio pare arrivare con il rapimento di Franco, per cui Fabio si risolve infine, con un sacrificio, a pagare il riscatto. Pare.
C'è qualcosa che limita l'apprezzamento di un film comunque dignitoso. Il racconto sembra stare oltre ed essere più veloce dei personaggi, del loro incidere nello spettatore; in questo senso non giova pure l'espediente riassuntivo del “coro” dei dipendenti, che ad un certo punto collega a parole due tranches temporali. I dialoghi, però (l'attore-regista scrive col sodale Ugo Chiti più Benvenuti [Leo] e De Bernardi), ci sono: a cominciare dalle battute di un Benvenuti sbarbato nel suo personaggio snob, che dice cose taglienti e provocatorie sempre con un'aria di sufficienza e superiorità, mentre Montesano mette a segno qualche bordata volgare, come la colorita spiegazione sulla (inventata) abitudine alle messe sataniche del fratello, alla presenza di un frate.
La mano registica di Benvenuti è presente: quella non di un mero metteur en scene “invisibile” di un copione di commedia (senza per questo pensare di star girando chissà che), tra soggettive (anche di un cane) e particolari. Con una tendenza ad andare sopra le righe che trova nutrimento nel soggetto, senza però diventare sguaiata, e che ha un quasi cartoonesco sbocco nella “sfida finale” tra i due fratelli. Oltre che con il gusto per la goliardata veloce, per la toscanità e il chiudere le sequenze mettendo un punto a base di umorismo. Segni del lavoro, del metodo di un cineasta che poneva una certa cura e idee nei suoi film, facendo del cinema: non sempre riuscito, a fuoco o icastico nei risultati oltre che nelle intenzioni, ma vivace e tale per cui oggi si può rimpiangere l'assenza dietro la macchina da presa, nel panorama della nostra commedia, di Benvenuti.
Camei, camei lampo e piccoli ruoli per diversi corpi e volti comici noti, toscani e non. Novello Novelli ovviamente c'è e compare all'inizio nei panni del capofamiglia, aprendo la storia con una spiritata epifania su fondo nero, in cui sembra un uomo fuori dal tempo; Giorgio Ariani fa parte del “coro industriali” (come da titoli di coda), che qua e là punteggia con brevi dialoghi sulla situazione dei protagonisti; Barbara Enrichi si vede alcuni istanti tra il “coro operaie”; Sandro Ghiani resta in scena una manciata di secondi come brigadiere. Daniela Poggi è la moglie di Franco.
A.V.