lunedì 8 dicembre 2014

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 32 TFF, Torino, 21-29/11/2014. WHIPLASH

Usa 2014. Di Damien Chazelle.

Andrew è un ragazzo che suona, bene, la batteria ed è iscritto al conservatorio di Manhattan, dove segue le lezioni di Fletcher, insegnante molto sui generis i cui metodi e personalità influenzeranno profondamente e negativamente la sua vita, canalizzata solo sulla musica ma senza uno sbocco artistico sicuro. Anzi, Andrew arriverà a un drammatico stop, che però non escluderà una sorta di seconda chance per ripartire.
Whiplash non è una edificante storia di un rapporto tra maestro e allievo, né un film musicale convenzionale. È invece una “commedia drammatica”, volendo apporre qualche etichetta, che pone delle domande le quali, insieme alla forza visiva e sonora, lo rendono una visione a cui si torna con la mente.
Fletcher non è affatto l'insegnante che ogni studente o giovane volenteroso vorrebbe: estremamente competente e sicuro di sé, mette in soggezione, umilia personalmente, offende con battute alla sergente Hartmann di volgarità raggelante, grida in faccia, picchia e lancia oggetti – il tutto di fronte a una classe intera – , “obbliga” a tour de force, non fa mai dare nulla per scontato e porta ai limiti chi lo voglia, anche non proprio consapevolmente, assecondare, rendendo per Andrew una questione di vita e morte, di incazzature (tra sé stesso e lo strumento, tra lui e l'insegnante), sangue sulle mani e stille di sudore in abbondanza (elementi su cui la regia torna spesso: il suonare qui è qualcosa di sporco e faticoso), quella che potrebbe essere una più semplice e meno stressante formazione artistica. Certo, anche Andrew ci mette mette del suo per gettare benzina sul suo fuoco, compiendo scelte drastiche come rompere un rapporto sentimentale in nuce per focalizzarsi solo sul suo progresso musicale. Inevitabilmente, lì come in molti altri punti del film si vorrebbe chiedergli: ne vale la pena?
L'apparente disumanità di Fletcher nasconde però una motivazione meditata, che chiarirà tardi. Si sente uno stimolatore di talenti, che riconosce e che non ha la benché minima intenzione di far sedere su presunti allori; l'impersonatore di un servizio reso alla musica con durezza e ardore in un'epoca in cui trionfano la medietà e i “lavori ben fatti”. O così o non si cresce, insomma, o così o la musica muore. Il fattore umano, in tutto questo, non è preso in considerazione. “Ma non c'è un limite?”, chiede infatti Andrew. E la risposta è “No”, accompagnata dal racconto del trattamento riservato da Jo Jones a un bravo ma deludente Charlie Parker.
Anche dopo un incontro pacificato tra i due a distanza di tempo, però, Fletcher si conferma “un bel tomo”: un tipo che utilizza carota e molto bastone, ma anche comportamenti spiacevoli oltre i limiti della lealtà. E nell'irrefrenabile, esaltante finale in musica (ma anche l'inizio, molto più parco, è bello), Andrew capisce come vincerlo e superarlo, usarlo (e di fatto stupirlo) riprendendo in mano bacchette e passione. Per apprezzare il film è richiesta una certa sospensione di incredulità, l'accettare le esagerazioni di un film a suo modo estremo, cosa che Whiplash, che ti acchiappa per la camicia, permette di fare abbastanza facilmente. E J.K. Simmons nei panni di Fletcher è ottimo e sembra nato nel ruolo.
Alessio Vacchi

Il trailer: https://www.youtube.com/watch?v=7d_jQycdQGo

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 32 TFF. FOR SOME INEXPLICABLE REASON

Tit.or.: VAN valami furcsa és megmagyarázhatatlan. Ungheria 2014. Con Áron Ferenczik.

Áron vive a Budapest ed è, come recita il pressbook del film, “an average 29 years old weirdo”. Appena lasciato dalla ragazza (di cui ricerca i capelli negli scarichi del bagno), è laureato, ma della laurea fa poco. I genitori lo mantengono e il fratello è del tutto sistemato, al contrario di lui. Più testa fra le nuvole che concreto, veste al limite del trasandato, ha pseudo-traumi infantili (che in un senso o nell'altro avranno uno sbocco) ed è in cerca, con molta poca convinzione e giusto perché così si deve fare, di lavoro. L'incertezza personale si salda con pressioni esterne e con la ben nota crisi economica. In seguito a una notte di alcool, scopre di aver prenotato un (costoso) viaggio a Lisbona, che farà. Lì troverà donna & impiego, ma la prenderà come una tappa, come se sentisse che non è quello il suo posto nel mondo, come fosse troppo presto per fermarsi, mettere un punto.
Primo lungometraggio per Gábor Reisz (anche sceneggiatore e direttore della fotografia), suo lavoro di diploma alla University of Theatre and Film Art di Budapest e buon successo in patria, For Some Inexplicable Reason è un film che facendo dell'alta critica e senza sminuirlo si può giudicare molto carino, che fotografa bene e con humour una realtà non solo psicologica, ma anche socioeconomica, di crisi, tale che si sarebbe portati qualunquisticamente a pensare che tutto il mondo è paese. Áron è in una età di mezzo ed è in mezzo a discorsi pessimisti, aspettative di adulti e del mondo adulto, nel quale però non sa bene come inserirsi né ne ha granché voglia, perché la sua testa è molto più disposta a inseguire fantasie, piaceri personali e il pensiero della persona amata (il montaggio in soggettiva di momenti felici vissuti assieme non sarà originale, eppure emoziona). In ogni caso, l'umore del finale è positivo. Non è difficile provare simpatia per il protagonista, ma allo stesso tempo non è sicuramente un film per tutti, almeno a livello di identificazione con esso: realizzati, inquadrati e precoci stiano alla larga.
Non tutto è a fuoco (vedi la banale autopromessa del protagonista di iniziare a scrivere il suo libro), ma c'è senso dell'umorismo, qua e là apertamente surreale. Anche gli attacchi di logorrea di Áron non sono sempre allo stesso livello: se quello alla ragazza che gli si offre sul letto, dal contenuto ficcante e altamente introverso, che demitizza il sesso come la sequenza precedente esprime uno sguardo ironicamente esterno verso la seduzione, è degno di Allen, la raffica di parole e film mentali su una vita insieme che spara di fronte alla giovane controllora Eva, ritrovata dopo averla incrociata su un bus, è più da cinema e non in senso positivo. Ancora, se le musiche à la commedia indie e i ralenti fanno parte del coté più “piacione” del film, gli originali titoli di coda però, in cui sfilano (anzi, corrono) cast e troupe, inchiodano. Un “piccolo” film che ha vinto il premio speciale della giuria e quello del pubblico al festival.
A.V.

Il trailer: https://www.youtube.com/watch?v=y7DjGQOUQFI

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 32 TFF. THE MEND

Usa 2014.

Cacciato dalla compagna Andrea, Mat (Josh Lucas) si presenta a casa del fratello Alan e relativa compagna Farrah nel corso di una festa. La mattina dopo, è lì che si risveglia, mentre i due sono partiti per un viaggio previsto. Si ripresenta Andrea, con suo figlio, e i tre fanno come fossero a casa loro, ma poi torna anche, tristemente solo, Alan. E parte una nuova formazione di convivenza “di famiglia”, anch'essa destinata a non essere eterna...
Debutto nel lungometraggio per John Magary (anche sceneggiatore), dopo alcuni corti, The Mend è una ronde di pochi personaggi che gravitano in un appartamento, da cui vanno e a cui tornano, in un convivere segnato, ovviamente, da una – inizialmente tollerata con passività, da parte del padrone di casa – condivisione di spazi, di stati d'animo e sprazzi di intimità. Una cosiddetta idea di sguardo c'è, come si comprende già nella lunga sequenza della festa all'inizio, in cui Magary si muove tra protagonisti e personaggi minori in modo ordinato. E il film crede in sé stesso, ci sono una calma baldanza e un flusso di scrittura che dicono di un progetto non preso sottogamba. Anche se ci crede non fino in fondo: non si capisce altrimenti il ripetuto tentativo di creare tensione sul nulla (spia della consapevolezza di qualche limite?), con musiche da thriller che semplicemente non c'entrano con immagini e atmosfere.
Il paradosso che non fa amare il film è che The Mend vorrebbe essere realista e umanista, uno di quei film con tanta vita, e personaggi che danno l'anima, dentro ma si fa sempre più verboso, teatrale, asfittico e un po' stucchevole, anche quando vuole essere a fior di pelle, come quando i due protagonisti vengono ai ferri corti e schiumano (Alan che scrive e porge un foglietto al fratello dicendogli “Questo è cosa penso di te!”? C'mon...). Inevitabilmente, parlando e parlando, alcune battute vanno a vuoto: ma alla lunga si finisce col notarlo di più. E ci si scoccia dei personaggi e dei loro girelli umorali, distaccandosi. Peccato perché un po' di potenziale c'era, e anche quando il film ormai ha stancato qualcosina si salva (per esempio, Farrah che rimuove le briciole altrui con la mano), ma i difetti sono prima di tutto di impostazione e il giudizio finale non può che essere un pollice molto medio.
Domanda provocatoria a chi lo difendesse: l'avessimo fatto in Italia un film analogo, non sarebbe finito liquidato come “solita menata da due camere e cucina”?
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 32 TFF. N-CAPACE

Italia 2014.

Anima in pena (sic) ha un rapporto irrisolto con il padre. Sui due aleggia il pensiero della madre che non c'è più. Fa parlare, ponendo delle domande personali e su temi importanti – i genitori, la scuola e il lavoro, il futuro, la morte e l'esistenza o meno di un aldilà, il sesso – , lui, altre persone anziane e alcuni giovani o giovanissimi, in un “viaggio sperimentale”, inquieto, inframmezzato da un suo antinaturalistico mettersi in scena. Come se cercasse di capire qualcosa in più, se si può, della nostra esistenza, capire a che punto siamo, prima di ributtarsi alleggerita nella vita (con la madre che finalmente le permette un agognato bagno al mare: è passato abbastanza tempo...).
Eleonora Danco è autrice, regista e attrice teatrale, con apparizioni anche al cinema (con Scola, Bellocchio, Moretti) e un poco di tv, qui al primo “suo” atipico film, che al festival ha ottenuto una menzione speciale della giuria e una (evitabile) menzione speciale ai personaggi intervistati. Parola, quest'ultima, che sta stretta al film: la Danco parla non di interviste ma di “performance” e “installazioni fisiche”: il contesto di queste riprese infatti non è mai improvvisato, si lega a frammenti di fiction e vengono lasciati alle persone piccoli “assoli”, fatte esplicitamente dire delle cose o fatte fare altre che si legano simbolicamente a quanto detto.
È un film che viene ad avere un po' due anime, e quella più evidentemente autoriale e lontana dal documentario “classico” piace meno. Probabilmente è un'osservazione facile, ma quando la Danco (che si esibisce anche in un full frontal) è in scena, su di un letto-tentazione personale di immobilismo posto incongruamente in luoghi pubblici, a vagare con vestito da sposa e piccone, a fare la scolara disperata in classe, a mostrarsi in una vasca piena di biscotti o la sua voce interviene con tono aspro a rimproverarla richiamando profezie genitoriali di inettitudine, sembra che qualcosetta strida. I suoi frammenti di performance (che qualche volta, in strada, sorprendono i presenti) e di messinscena sono francamente meno interessanti di volti e parole degli “intervistati”. Va detto però che non si può accusare l'autrice/attrice di eccessivo narcisismo, di prendersi troppo spazio. E che non le manca un'ironia autosmitizzante, come nelle discussioni che ha col padre mentre lo dirige, con lei che deve insistere a fargli dire cose a cui lui è recalcitrante, perché non sente sue o teme di risultare male. Colpiscono anche, tra le idee della regista, il vestire da astronauti (perché vivono in una loro bolla) il padre e la badante e l'applicare foto d'infanzia al volto.
Certo, l'affresco umano che ne esce non è proprio sereno o rassicurante, anche se è un effetto che può essere nascosto dalle risate che nascono con spontaneità. Tra i giovani che si sentono regnano ignoranza e pregiudizi (sulle donne, per esempio: troie!), orizzonti ristretti (al lavoretto concreto), allergia alla scuola e alla cultura (leggere? L'arte?). C'è una ragazza che sembra una parodia impersonata da Caterina Guzzanti, ma anche un ragazzino che dice delle cose simpatiche, sulla sua idea di paradiso e le primissime esperienze con l'altro sesso (precoci quasi per tutti, almeno a parole). Gli anziani ricordano (senza compiacimenti, almeno) la violenza genitoriale che da giovani costituiva pratica quotidiana, tra minacce di morte e punture di aghi, ma sono anche capaci di uscite di tagliente saggezza popolare, e comunicano ingenuità e filosofie di vita conciliate. In tutto questo collegare, toccare e ri-toccare temi alti, il riso talora si raggela in volto (come nel caso del vecchio che, interpellato sull'omosessualità, ha una sbottata di un'omofobia cieca, estrema, “da vecchio” appunto), oppure capita il contrario, che un discorso che si segue seriamente si muti, per un cambio di tono e di marcia, in riso (come la signora che ricorda la via a suon di botte e prepotenza col marito, quando la Danco le chiede se a letto poteva prendere lei l'iniziativa): come nella vita.
Un piccolo film che parla a noi e di noi, che pone lo spettatore vis-à-vis con altri esseri umani; film il cui disegno artistico non convince appieno ma senza che questo apporti un danno particolare, e che potrebbe intercettare il pubblico (che si diverte e commenta), se gliene verrà dato modo.
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 32 TFF. THE EDITOR

Canada 2014. Con Paz de la Huerta.

Italian Giallo anni 70, ovvero pelle d’oca ad ogni inquadratura? Non è detto, se due ragazzacci come i canadesi Matthew Kennedy e Adam Brooks ci mettono lo zampino: The Editor è infatti una parodia dichiarata del genere, irriverente e caustica ma non priva di amore per i classici che hanno reso grande il nostro cinema del terrore, in Italia come all’estero. È evidente che i due filmakers hanno visto e apprezzato i capolavori del filone: si va dalle citazioni colte ai maestri dei Seventies come Dario Argento, Sergio Martino, Paolo Cavara e Armando Crispino al fantastico e blood & gore anni 80 di Lucio Fulci, senza dimenticare gli stranieri (c’è una deliziosa citazione pure al Juan Piquer Simón di Pieces). Il tutto in un riuscitissimo cocktail che prende argutamente in giro i clichè e i punti deboli dei titoli più famosi e storicizzati, che a ben vedere sono fra i motivi per cui oggi i cinefili li riguardano con tanto piacere: plot pretestuosi, dialoghi sopra le righe, personaggi tagliati con l’accetta (in tutti i sensi), finali tanto plateali quanto improbabili e ovviamente razioni abbondanti di sangue e morbosità.
La trama di The Editor è quantomai derivativa: un montatore cinematografico caduto in disgrazia a causa di una menomazione fisica e costretto a lavorare ad un giallaccio di quarta categoria infarcito di truculenze e sesso pecoreccio è il principale indiziato per una catena di efferati delitti che funestano il set, apparentemente opera della stessa mano… inutile dire che il colpevole è un altro e verrà smascherato nel finale, anche se i dubbi su cosa sia veramente successo rimangono, in un continuo mescolarsi di realtà e allucinazione. Se trama e personaggi inizialmente fanno pensare ai thrilling nostrani anni 70, la mancanza di coerenza logica e l’accumulo di effettacci cruenti rimandano in maniera palese agli horror più estremi del cinema italiano del decennio successivo, tra copioni inesistenti, fiumi di emoglobina e personaggi trasformati in pedine di un gioco maniacale. Si ride di gusto, pur non mancando momenti di suspense e soprattutto pugni nello stomaco poco adatti alle anime candide. The Editor è una black comedy girata con intelligenza, demenziale quanto si vuole (vien da pensare al Mel Brooks di Alta tensione) ma realizzata con tanto stile e voglia di fare cinema che spesso mancano a tanta cinematografia “alta”.
Corrado Artale

Il trailer: https://www.youtube.com/watch?v=I0tiCVwHb04