Valerio Mastandrea è un non molto probabile professore (senza nome: è chiamato il
Professore, o “zio”, a seconda) che vive praticamente isolato in
mezzo al deserto del Nevada. Tra il container che gli fa da
appartamento e l'antro in cui sperimenta, sta trascinando da anni una
ricerca per conto del governo degli Stati Uniti, al fine di
comunicare con altre forme di vita nello spazio. Crucciato dal non
essere più riuscito a captare nuovamente un segnale dalla moglie
morta tempo prima, il Professore è abituato giusto agli incontri con
la giovane assistente Stella, finché gli capitano tra le gambe due
nipoti, fratello minore (Tito) e sorella maggiore, figli dello zio
defunto che gliene ha annunciato l'arrivo con un video. La vita del
Professore si fa più disordinata, ora che deve badare ai due: senza
contare che Tito si impiccia nei suoi esperimenti, perché ha la
fissa del parlare col padre – e usa farlo attraverso una fotografia
su uno smartphone – , e sul lavoro del Professore incombe un
ultimatum dei militari (che sono “da cinema”, di ghiaccio, non
malleabili).
Scritto e diretto da
Paola Randi (il cui lungo precedente è Into Paradiso: non
visto, ma a leggerne la trama si trovano delle analogie, a cominciare
da un protagonista scienziato), Tito e gli alieni è
passato in “Festa mobile” ed è stato accolto come una piccola
sorpresa. Qualche motivo c'è.
I sostenitori della
perenne “rinascita” italica qui potrebbero trovare un poco di
pane per i loro denti, in questo film con un uso superiore al solito,
per un lavoro italiano, di effetti speciali. Anche se il colore è
quello di una commedia, anzi quasi una commedia per ragazzi, oltre
che “con”. Mastandrea non è protagonista assoluto, ci mette un
poco ad entrare in scena e un altro pezzo ad aprire realmente bocca e
il film si dedica abbastanza pure ai due ragazzini, invero non sempre
simpatici perché la napoletanità non equivale necessariamente a
risata, e le cui uscite dialettali non sempre sono comprensibili (ma
non per questioni culturali... ma di dizione e audio: signori del
cinema italiano, qualche volta non si capiscono le battute dei
vostri/nostri film. Al TFF lo si è notato anche in Blue Kids).
L'attore romano fa quello che gli riesce meglio: un personaggio di
uomo insicuro, goffo, spalmando la sua naturale carica di simpatia in
diversi momenti che strappano il sorriso. E il film va avanti così,
tra un po' di humour, un po' di tenerezza e di malinconia, condito
dalla componente di vitalità giovane e regionalistica dei due nipoti
(ma anche Mastandrea sfoggia un accentello napoletano, con risultati
accettabili) e puntellandosi con un deciso uso di (belle) canzoni,
compreso un Chet Baker. Ma tutte queste componenti insieme,
mettendoci anche gli spettacolari panorami naturali – e non:
l'antro segreto del professore, con il robot “Linda”... – ,
lasciano un che di amaro in bocca, perché si bolla presto il film
come “carino” ma con carte limitate da giocare, che sono quelle
già messe sul piatto, e poco da dire.
Nell'ultima parte si fa
più movimentato, seguendo in parallelo i personaggi che si muovono
verso l'Area 51 (sic), e poi ecco che ti frega: perché quando si
giunge all'accarezzato, rimandato, finora fallimentare esperimento,
tocca corde tali, andando a chiudere il tema del comunicare con chi
non c'è più, che è arduo non emozionarsi. Lì diventa più chiaro
che questo filmetto ha le sue ambizioni non solo a livello di
confezione (con una fotografia leggermente accesa) e di flirt con
qualche “genere”, ma perché parla di cose ultime in un modo
efficace, che sarebbe ipocrita non riconoscere (e non saranno stati
casuali i soffiamenti di naso in sala negli ultimi minuti). Si spinge
tanto in questa direzione che poi si sente di correggere con una
nuova nota umoristica. Certo, il tutto richiede una certa sospensione
di incredulità, ma un piccolo segno lo lascia.
A.V.
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